Esattamente 40 anni fa, con 752 voti su 977, al primo scrutinio Francesco Cossiga diventa Presidente della Repubblica, succedendo a Sandro Pertini. A 56 anni è il più giovane capo dello Stato, assumendo l’incarico dopo un cursus honorum di tutto rispetto: sottosegretario alla Difesa, ministro della pubblica amministrazione, ministro dell’Interno durante il caso Moro, dimettendosi dopo l’assassinio dello statista democristiano con l’assunzione di responsabilità che evitano che l’Italia sprofondi nel caos. L’anno dopo diventa capo del governo e nel 1983 presidente del Senato.È l’ultimo Presidente della Repubblica della guerra fredda ed è quello che comprende cosa ci sarà oltre il muro, cioè l’evaporazione del precedente ordine mondiale, in cui si inserisce anche la sottoscrizione del trattato di Maastricht del 7 febbraio del 1992.È la stagione delle picconate. “Non sono pazzo, faccio il pazzo per farmi ascoltare”, diceva. Invita i partiti ad abbandonare le liturgie finora seguite, poiché gli scenari politici nazionali e internazionali si erano trasformati per sempre. E da qui il messaggio alle Camere nel 1991 in cui auspica il necessario coinvolgimento del Pci. Il documento non venne neanche discusso e il Presidente fu inascoltato, incompreso, contrastato, deriso. “La grande riforma mancata” la definirono anni dopo Paolo Savona e Pasquale Chessa.Cossiga, inoltre, comprende un dato centrale, che sta caratterizzando tutta la cosiddetta Seconda Repubblica: il rapporto tra politica e magistratura. E lo fa quando il 14 maggio 1991 revoca la delega al vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura a Giovanni Galloni perché faceva “demagogia eversiva” e nel novembre 1991 inviando la forza pubblica a Palazzo dei Marescialli, sede del Csm. E lo fa anche quando il 14 agosto del 1991 solleva il caso della grazia al teorico delle BR Renato Curcio, per la quale era a favore anche Indro Montanelli, che era stato gambizzato dai terroristi. Si sofferma sulle ragioni che hanno generato il fenomeno, su quelle ingiustizie sociali che, quasi per nulla rimosse e legittimate a volte dalle leggi, oggi si evidenziano in modo diverso e pervasivo, tanto da poter rappresentare in prospettiva un pericolo grave per la stabilità delle istituzioni democratiche. Dall’ampio dibattito che segue emerge evidente che il punto di frizione è proprio il rapporto tra politica e giustizia.Quando il 24 ottobre 1990 il presidente del Consiglio Giulio Andreotti alla Camera comunica l’esistenza di Gladio, Cossiga ne sostiene la perfetta legittimità, come poi venne confermato dai Tribunali della Repubblica. Le polemiche infiammano e si sommano ad altri pronunciamenti del Presidente della Repubblica, del quale il 6 dicembre 1991 viene richiesta addirittura la messa in stato di accusa per 29 capi di imputazione. Tutto viene poi archiviato. Cossiga annuncia le sue dimissioni il 25 aprile del 1992, due mesi prima della scadenza naturale, con un messaggio televisivo a reti unificate.Nell’abbandonare il Quirinale, Cossiga dispone che la banda militare suoni l’inno sardo “Cunservet Deus su Re”. Nel messaggio aveva detto: “In questi anni ho sempre cercato di servire lo Stato. Forse ho sbagliato molte volte e ve ne chiedo scusa, ma anche quando ho sbagliato, credetemi, l’ho fatto ritenendo di essere nel giusto. Molti, non tutti, mi hanno combattuto per quello che ho detto, per quello che ho fatto e per quello che proponevo e io sono certo che solo una piccola parte ha agito per miserandi interessi personali, finanziari, pseudo politici, di lobbies irresponsabili e prepotenti, pericolo vero nel nostro Paese”. Ed è altamente probabile che in quarant’anni queste “lobbies irresponsabili e prepotenti” abbiano agito in profondità.Dopo le dimissioni, Cossiga diventa senatore a vita e rende compiuta la democrazia italiana consentendo che l’ex comunista Massimo D’Alema guidi un governo della Repubblica. Poi attacca la politica al chiodo e pubblica libri e si dedica allo sviluppo della cultura dell’intelligence nel nostro Paese.Infatti, Francesco Cossiga può essere considerato l’uomo di Stato che ha apertamente espresso la sua attenzione verso l’intelligence, considerandola un fattore decisivo per perseguire l’interesse nazionale. La sua passione per l’intelligence rispondeva a esigenze di trasparenza e non a logiche di segretezza, incompatibili con i sistemi democratici.Un uomo di Stato non può che essere un uomo di intelligence, ponendo in primo piano la necessità della visione e la qualità della classe dirigente. Pertanto ricordare oggi Cossiga non vuol dire guardare con nostalgia al passato ma significa come costruire con responsabilità l’avvenire.