Tregua. Così la chiamano. Dopo dodici giorni di fuoco tra Israele e Iran, Donald Trump si incorona paciere e il mondo finge di crederci. Una grottesca messa in scena in cui tutti vincono e nessuno perde, tranne la verità e il buon senso (e i morti). Ma dietro il sipario di questo ennesimo “deal”, la realtà è una sola: la politica estera americana non esiste più. È stata rimpiazzata da una sottomissione strutturale all’agenda di Tel Aviv.Nel secondo mandato Trump, l’appoggio a Israele ha smesso di essere alleanza strategica per diventare subordinazione totale. La dottrina si regge su tre pilastri: messianismo evangelico, etno-nazionalismo israeliano e business miliardario. Il Medio Oriente, nella visione trumpiana, è un campo da sfruttare. Lo ha disegnato Jared Kushner, il genero di Trump, regista dei Patti di Abramo e della cosiddetta “pace economica”, che riduce il conflitto israelo-palestinese a un ostacolo sulla strada del profitto. Israele, Paesi del Golfo e capitali occidentali: tutto ciò che non rientra in questo schema – come i diritti dei palestinesi (ammesso che sopravvivano al genocidio) – va spazzato via.Il plenipotenziario di Trump per il Medio Oriente non è un diplomatico, ma Steve Witkoff, imprenditore immobiliare, ebreo, partner di golf e d’affari del presidente. Ma la vera mutazione è culturale. La politica estera americana è oggi scritta da predicatori televisivi, teologi da salotto, ex conduttori di Fox News. Il Pentagono è affidato a Pete Hegseth, noto per aver invocato la “restaurazione del Tempio” a Gerusalemme. L’ambasciata in Israele è guidata da Mike Huckabee, pastore evangelico, per cui la Terra Santa non è geopolitica, ma profezia.A dare sostanza al nuovo asse ideologico ci pensa una schiera di figure chiave, molte delle quali di origine ebraica e ideologicamente allineate: Charles Kushner (ambasciatore a Parigi), Howard Lutnick (Commercio), Stephen Feinberg (Difesa), Steve Miller (Deputy Chief of Staff), Yehuda Kaploun (inviato contro l’antisemitismo), Jared Isaacman (NASA), Martin Marks (White House liaison), Eric Trager (Consiglio di Sicurezza). Tutti inseriti nei gangli del potere. Non è una questione religiosa: è una coerenza politico-identitaria che rende Washington indistinguibile da Gerusalemme.La verità è che in America – e a cascata nelle capitali europee, Roma in testa – il dibattito su Israele non esiste. È un tabù. Lo sostiene da anni il politologo John Mearsheimer. La sua è una diagnosi strutturale, non tattica: la lobby pro-Israele, una rete capillare di think tank, donatori e media, ha rimpiazzato la strategia con automatismi ideologici. Per cui la diplomazia americana non distingue più tra l’interesse nazionale e quello di un alleato che, sotto la guida di un Netanyahu aggrappato al potere, persegue una strategia insostenibile. La politica su Iran e Palestina non nasce da minacce reali (come accade per i nemici Russia e Cina), ma da questo cortocircuito sistemico.Trump, intanto, ci sguazza. Non decide, annusa. Bastano due minuti su Fox News per fargli autorizzare un attacco ai siti nucleari iraniani. Lo ha riportato il New York Times: prima ha visto in tv i successi militari israeliani contro Teheran, ha sentito gli “esperti” che gli chiedevano di intervenire, poi ha dato l’ordine. E si è preso i meriti della vittoria (che ovviamente non lo è, l’Iran continuerà con il suo programma nucleare). Nessuna visione, solo narcisismo compulsivo e frenesia da “deal”. Ma con conseguenze globali.Una dinamica che rivela non solo il peso della lobby pro-Israele, ma la banale e incontrollata hybris di un presidente mosso da una smania di potere, non da una visione del mondo. Si lancia in atti di guerra imprevedibili, in aperta violazione del diritto internazionale, come i bombardamenti sull’Iran, per poi vantarsi di aver risolto la crisi facendo da paciere. E intanto, sostiene il genocidio a Gaza, una “pulizia etnica” a cui la guerra a Khamenei ha fornito la copertura ideale, per intensificare il massacro dei palestinesi. L’attacco all’Iran? Solo un pretesto. Non è chiaro? Serviva a oscurare Gaza e i suoi 60-100.000 morti, a distrarre l’opinione pubblica.Netanyahu, sotto processo per corruzione, non poteva chiedere di meglio. Il suo governo, sostenuto dai suprematisti messianici Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, punta a una guerra permanente per garantire sopravvivenza politica e colonizzazione integrale della Palestina. Trump, anziché frenare questa deriva, la legittima. Il risultato è una mutazione senza precedenti: non è più Israele a coordinarsi con gli Stati Uniti. Sono gli Stati Uniti a seguire il calendario politico di Tel Aviv. Secondo il politologo John Mearsheimer, l’America non è più capace di distinguere i propri interessi da quelli israeliani: “Il dibattito su Israele è bloccato, la lobby è ovunque, il processo decisionale ridotto a riflesso condizionato, la politica estera non è più politica, è automatismo“.Anche la tregua è un trucco narrativo. Finirà, come sempre. Perché la macchina bellicista è ormai in moto e non ha più freni. Fatto sta che con Trump e la sua ossessione per i “deal”, gli Stati Uniti hanno accettato il ruolo di potenza subordinata a un’agenda altrui, che non controllano e che non serve i loro interessi vitali. Ma non erano la guida del mondo libero?L'articolo Ormai la politica estera Usa è stata rimpiazzata da una subordinazione totale all’agenda di Israele proviene da Il Fatto Quotidiano.