Ivan Basso, il doping e la svolta dopo il tumore: «Nel ciclismo nessun’etica, volevo vincere a ogni costo. La salvezza? Mia moglie»

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Ivan Basso ci ha messo anni per capire che quella che stava vivendo non era la vita vera. Era una sorta di apnea, una corsa contro tutti e contro se stesso. Per vincere, sempre e a qualsiasi costo. Compreso quello di doparsi. Ora che ha rimesso in sesto le priorità della sua vita, racconta tutto al Corriere della Sera. «Per trent’anni ho corso in apnea, cieco e sordo: non vedevo le montagne, non sentivo il tifo, pensavo solo a vincere». Quell’imperativo, cui Basso si era abituato fin da bambino, quando già inanellava successi nelle corse locali attorno a Gallarate, lo ha portato fuori strada. L’atleta lombardo tentò di truccare le sue prestazioni con un sotterfugio scientifico ordito con un medico spagnolo. Era il 2006, e Basso aveva appena vinto il suo primo Giro d’Italia. «Come quasi tutti all’epoca, non ero educato all’etica della vittoria e della sconfitta, anzi non avevo nessuna etica. Non pensavo certo di essere nel giusto, ma mettevo davanti al giusto ma anche alla mia famiglia la voglia sfrenata di vincere. Per questo oggi l’etica è la prima cosa che cerco nei miei corridori». Non gli bastò, voleva di più: il Tour de France. Nacque così l’idea di contattare un dottore spagnolo specializzato in trasfusioni. «A Madrid mi feci prelevare due sacche di sangue che poi mi sarei fatto iniettare prima del Tour per avere globuli rossi più freschi e andare più forte», racconta il ciclista a Marco Bonarrigo e Aldo Cazzullo. Se quel progetto non andò in porto fu solo per l’intervento della polizia spagnola. «In un’operazione investigativa trovarono le sacche congelate, mie e di altri, e associandole al Dna nelle banche dati della federazione mi identificarono». Scoppiò lo scandalo, Basso dopo le prime ritrosie mesi dopo ammise tutto in tribunale, e pagò con una lunga squalifica (dal 2007 al 2009). Poi però tornò e vinse di nuovo (Giro d’Italia, 2010). Dovevano passare ancora anni prima che il ciclista accettasse il tramonto sportivo e si ritirasse.La carriera, la malattia, il ritiro «A un certo punto mi sono accorto che percepivo nitide delle voci, quelle di chi gridava “Dai Ivan che davanti non sono lontani, li puoi ancora prendere”. Da inseguito ero diventato inseguitore. Sentivo gli applausi dei bambini davanti alle scuole e pensavo ai miei, di bambini, che in quel momento erano a lezione. Così ho capito che ero al capolinea, che dovevo ricominciare una nuova vita. Non avevo valutato che sarebbe stato così difficile». A contribuire a farlo “risvegliare” dall’incantesimo sui rapporti tra sport e vita fu anche, a luglio 2015, la drammatica scoperta di un tumore. «Sto disputando il Tour del France, a quel punto come gregario di Alberto Contador. Durante la tappa di Pau cado malamente. In ospedale con la Tac mi trovano un tumore ai testicoli in stato avanzato, da operare subito. Senza quell’incidente forse l’avrei scoperto troppo tardi. In quello stesso luogo, undici anni prima, un medico amico mi aveva telefonato dicendo che il tumore al pancreas di cui soffriva mia madre era allo stato terminale. Ho rivisto la mia vita, ho realizzato che un capitolo si stava chiudendo». Ma la “redenzione” completa è arrivata ancor più di recente, quando un bel giorno la moglie Micaela lo ha preso da parte e gli ha fatto realizzare le vere priorità della vita. «Con mia moglie da anni abbiamo in piedi un’azienda agricola, nel Varesotto: coltiviamo mirtilli. L’anno scorso Micaela di punto in bianco mi chiese di sedermi sotto il pergolato e cominciò a parlarmi. È andata avanti due ore, rovesciando la mia e la sua vita senza mai umiliarmi. Alla fine era tutto chiarissimo. Il mio fallimento come padre e marito. I miei quasi quarant’anni in apnea, le mie mancanze, i miei tradimenti ai doveri della famiglia, la scomparsa di ogni intimità tra me e lei. Ho capito che non avevo mai spento l’interruttore, che ero ancora l’atleta miope, ossessionato dalla voglia di successo che non vedeva altro nella vita. È stato profondo, violento, terapeutico. Ho ucciso l’Ivan Basso atleta e tirato fuori finalmente l’uomo».La nuova vita da manager e il ciclismo di domaniOra il ciclista lombardo, riavvolgendo il nastro, riflette amaro sui (non) valori cui si conformava nel pieno della sua carriera. «Desiderio sfrenato, incontrollabile di vincere tutto». Più in generale, «come quasi tutti all’epoca, non ero educato all’etica della vittoria e della sconfitta, anzi non avevo nessuna etica. Non pensavo certo di essere nel giusto, ma mettevo davanti al giusto ma anche alla mia famiglia la voglia sfrenata di vincere». Nasceva così, per lui e molti altri, l’attrazione anche per i metodi sporchi, sleali. «Ero cresciuto in quel modo e nulla avrebbe potuto fermarmi, sapevo cosa stava succedendo ma non volevo rendermene conto. Pensavo di essere nel giusto». Poi ha capito di aver sbagliato, profondamente. «Non ho fatto in tempo (a doparmi per l’intervento della polizia spagnola, ndr). Ma so cos’ho fatto, riconosco le mie colpe, e mi vergogno». Ora che la redenzione è compiuta e acquisita, nella sua nuova vita da manager di una squadra di giovani ciclisti (il Team Polti VisitMalta), Basso si sforza di rovesciare lo schema: «Oggi l’etica è la prima cosa che cerco nei miei corridori». Ed è un sollievo per lui, dice, che il sistema di valori sia cambiato più in generale nel ciclismo. «Mio figlio Santiago è appena passato professionista. Fa il mio stesso mestiere, non veste la maglia della mia squadra, non lo alleno io, si farà strada da solo se ne ha i mezzi. Io e Micaela proviamo gioia pensando che lui lavora in un mondo molto più etico di quello in cui vivevo io, che non ha la minima idea di quello che ci circondava e ci tentava alla sua età».L'articolo Ivan Basso, il doping e la svolta dopo il tumore: «Nel ciclismo nessun’etica, volevo vincere a ogni costo. La salvezza? Mia moglie» proviene da Open.