di Giuseppe Gagliano – Durante un incontro alla Casa Bianca con il nuovo cancelliere tedesco Friedrich Merz, il presidente statunitense Donald Trump ha pronunciato una frase destinata a far discutere: ha paragonato la guerra tra Russia e Ucraina a una lite infantile, suggerendo che forse è meglio “lasciarli combattere ancora un po’” prima di intervenire per separarli. Una battuta, certo. Ma anche una sintesi brutale e disarmante della nuova dottrina trumpiana sull’Europa orientale: non più fronte ideologico da difendere, ma conflitto da contenere finché utile.Nel suo colloquio con Vladimir Putin, avvenuto il giorno prima, Trump avrebbe ripetuto l’immagine: lui come un arbitro di hockey che lascia i giocatori picchiarsi prima di porre fine alla rissa. E quando Putin ha avvertito che “Mosca dovrà rispondere” agli attacchi ucraini del 1 giugno contro le basi aeree russe, Trump avrebbe risposto “non farlo”, ricevendo però un chiaro “non sarà bello”. Parole che, a giudicare dalla posizione successiva di Washington, non sono state seguite da alcun monito concreto.Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha infatti confermato che la Russia risponderà “come e quando riterrà opportuno”. L’effetto geopolitico è netto: il silenzio americano rafforza Mosca. Putin ottiene il disimpegno senza condizioni, mentre Washington si sfila tra retorica isolazionista e paralisi congressuale.Merz da parte sua ha provato a tenere il punto. Ha ringraziato gli USA per il ruolo nella Seconda guerra mondiale, ma ha ricordato che “la violenza è nata dall’invasione di Putin” e che la Germania è pronta a collaborare per aumentare la pressione su Mosca. Un richiamo alla storia, ma anche un tentativo, timido, di rimettere i principi al centro della diplomazia. Tentativo vano, almeno per ora.Trump, incalzato sulla possibilità di nuove sanzioni, si è trincerato dietro un ambiguo “potremmo sanzionare entrambi”. L’equivalenza morale tra aggredito e aggressore diventa così parte della dottrina trumpiana: se tutti sono colpevoli, nessuno lo è veramente.La visita di Merz ha avuto anche un valore simbolico: il dono del certificato di nascita del nonno di Trump, Friedrich, nato in Germania, suggella un rapporto personale che il cancelliere vuole rendere “decente”, nel tentativo di evitare i contrasti che segnarono il rapporto tra Trump e Merkel. Ma dietro la cortesia si nasconde un gelo strategico.Sul piano commerciale, Trump ha rilanciato i temi del deficit e dei dazi. La Germania esporta per 160 miliardi l’anno verso gli USA e Trump punta a colmare l’“ingiustizia” con misure correttive. La guerra commerciale resta, anche qui, uno strumento a doppio taglio: pressione sugli alleati, concessioni ai rivali.Più inquietante però è il passaggio sulla NATO. Trump ha ribadito la sua richiesta di aumentare la spesa per la difesa al 5% del PIL, ben oltre l’attuale obiettivo del 2% che Berlino non ha mai raggiunto. La NATO si trasforma così da alleanza difensiva a club contributivo, dove il rispetto degli standard finanziari conta più della coesione politica.Merz ha promesso continuità nel sostegno all’Ucraina e ha firmato un accordo per lo sviluppo di missili a lungo raggio con Kiev. Ma resta il dubbio: quanto può contare la Germania se il “capitano” della NATO si rifiuta di intervenire tra due “bambini che litigano”?La posizione americana, cioè tra neutralità apparente e strategico disimpegno, rischia di cambiare la natura stessa del conflitto ucraino: da guerra di difesa a conflitto utile, consumato a debita distanza, lasciato bruciare finché conviene. Un paradigma spietato ma coerente con la nuova visione americana: meno Europa, meno vincoli, più gestione del caos. Anche se, a pagarne il prezzo, saranno altri.