"Noi adesso ce ne andiamo a poco a poco/ verso il paese dove è gioia e quiete./ Forse, ben presto anch’io dovrò raccogliere/ le mie spoglie mortali per il viaggio”. Sono questi i primi versi di una delle ultime poesie scritte da Sergej Esenin, uno dei più grandi poeti della Russia post-rivoluzionaria che l’anno successivo, nel 1925, si sarebbe ucciso impiccandosi con una cinghia alle tubature di un radiatore in una stanza d’albergo di Leningrado. Irregolare, famosissimo alla sua epoca e subito dopo messo all’indice tanto da Stalin quanto da Krusciov, bevitore accanito per troppa vita e troppa disperazione, ma allo stesso tempo leggiadro nella scrittura, amato dalle donne che molto aveva amato, “poeta contadino” cantore della Russia più arcaica e quasi idealizzata che vedeva nella rivoluzione la fantasiosa speranza (ovviamente subito tradita) di un trionfo messianico dei contadini e delle loro tradizioni piuttosto che del proletariato urbano. A cento anni dalla sua morte, i versi di Esenin, che ne aveva appena trenta al momento della fine, appaiono interamente fuori tempo e distanti in maniera siderale da tutta quella produzione celebrativa della Rivoluzione russa le cui parole sono irrancidite sotto il peso della Storia e della propaganda. Esenin, invece, nel suo essere interamente fuori dal proprio tempo e interamente dentro le sue parole che ci arrivano con la forza e la freschezza di chi ci parla dal domani, o da quel luogo in cui le cose sono vere da sempre, mantiene ancora intatta la tenerezza, l’angoscia e la leggerezza del suo canto panico. Della potenza fusionale di uno spirito che si fa mondo scendendo dentro le cose, divenendo quelle cose, facendosi memoria ciclica che prescinde da ogni temporalità lineare. “Care foreste di betulle! / Tu terra! E voi, sabbie delle pianure! / Dinanzi a questa folla di partenti/ non ho forza di nascondere la mia malinconia. / Ho amato troppo in questo mondo/ tutto ciò che veste l’anima di carne. / Pace alle tremule che, allargando i rami, / si sono specchiate nell’acqua rosea. / Molti pensieri in silenzio ho meditato, / molte canzoni dentro di me ho composto. / Felice io sono sulla cupa terra/ di ciò che ho respirato e che ho vissuto. / Felice di aver baciato le donne, / pestato i fiori ruzzolato nell’erba,/ di non aver mai battuto sul capo/ le bestie, nostri fratelli minori”. Una lirica che custodisce, in parole, quel vento sottile che tutti avvertiamo, quella sensazione leggera, fuggevole e malinconica, come un dolce formicolio, che è la vita che fugge. Il momento di effimera dispersione di sé, di ondeggiante oblio di foglie tra gli alberi, di luce rifranta. Ma anche chi crede nel progresso, nell’avanzamento, nella possibilità della singolarità o della salvezza, anche chi crede che la Storia non sia accrescimento tecnico ma affermarsi di una coscienza sempre più rischiarata, non può non chiedersi cosa sia questa sensazione senza tempo, e quindi senza storia, che accomuna tutta l’umanità che abbia mai pensato attraverso i millenni e che sia stata consapevole di dover scomparire. E’ forse questa sensazione esatta la radiazione cosmica di fondo della comparsa dell’uomo, l’orizzonte comune di riconoscibilità del “fenomeno umano”. L’uomo, qualsiasi cosa questa parola così generica voglia esprimere, compare nel momento esatto in cui sa di dover morire. Fino a un attimo prima era solo un animale, poi diviene uomo, ossia pronto a lasciare traccia di sé, a non voler andarsene nel buio di una notte qualsiasi come se non ci fosse mai stato. E lì, in quello stesso momento, inizia la Storia, nel momento in cui l’uomo decide di provare a cambiare le cose, di provare a ribellarsi contro ciò a cui appare da sempre destinato: sparire nel nulla. Eppure, è proprio in questo sfigurare del sembiante, nello scivolare via dell’esistenza in ogni attimo che avvertiamo la più profonda realtà di quell’evento che tutti siamo e che chiamiamo “uomo”. E’, del resto, la sensazione di essere insieme condannati e destinati ciò che più ci accomuna e che in modo così potente si avverte in questo canto di Esenin. “So che là non fioriscono boscaglie,/ non stormisce la segale dal collo di cigno./ Perciò dinanzi a una folla di partenti/ provo sempre un brivido. / So che in quel paese non saranno / queste campagne biondeggianti nella nebbia. / Anche perciò mi sono cari gli uomini/ che vivono con me su questa terra”.