di Giuseppe Gagliano – La Repubblica Democratica del Congo si muove oggi lungo due binari paralleli che sembrano non incrociarsi mai: da una parte, la brutale realtà di un conflitto decennale che continua a devastare le regioni orientali del Paese; dall’altra, l’ambizione politica di rappresentare l’Africa nelle sedi più alte della diplomazia internazionale. Eppure, proprio questo dualismo pone interrogativi laceranti sulla reale efficacia delle istituzioni multilaterali e sulla capacità del sistema ONU di affrontare crisi che si consumano sotto i suoi occhi.Il 3 giugno 2025, Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto che denuncia crimini gravissimi compiuti dai ribelli dell’M23 – movimento armato sostenuto dal Ruanda – nel quartiere Kasika di Goma, capoluogo del Nord Kivu. Le date sono precise: 22 e 23 febbraio. I numeri, agghiaccianti. Almeno 21 civili giustiziati. Le modalità, barbariche: sette uomini giustiziati con colpi alla testa presso l’ex campo militare di Katindo, undici corpi scoperti in un cantiere poco distante. Il giorno successivo, altri uomini – sospettati di essere soldati o ex soldati dell’esercito regolare – vengono radunati e accusati di collaborazionismo. Tre di loro, che tentano la fuga, vengono abbattuti sul posto.Secondo HRW, molti di quei civili potrebbero essere stati reclutati forzatamente, una pratica purtroppo comune nei conflitti africani dove la linea tra combattente e ostaggio è spesso sottile quanto l’aria rarefatta dei grandi laghi.Nel pieno di questa spirale di violenza, Amnesty International ha pubblicato un altro rapporto, datato 27 maggio, che accusa l’M23 di torture, omicidi e sparizioni forzate di civili nei centri di detenzione di Goma e Bukavu. Eppure, nonostante l’evidenza, la comunità internazionale continua a trattare la questione con una cautela che sfiora l’indifferenza.Anzi, con tempismo quasi surreale, proprio mentre venivano rese pubbliche le immagini e i documenti di questi crimini, la Repubblica Democratica del Congo è stata eletta membro non permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, assieme a Bahrein, Colombia, Lettonia e Liberia. Il mandato inizierà nel gennaio 2026 e durerà due anni. È la seconda volta che Kinshasa siederà tra i quindici Stati responsabili della sicurezza e della pace nel mondo.La ministra degli Esteri congolese, Thérèse Kayikwamba Wagner, ha dichiarato con orgoglio che il suo Paese si presenterà al Consiglio con “l’esperienza di una nazione che ha conosciuto il conflitto” e che saprà “contribuire in maniera concreta alle operazioni di pace e alla protezione dei civili”. Parole nobili, certo. Ma stride la distanza tra la proiezione diplomatica di Kinshasa e la brutalità quotidiana che affligge il Kivu, il Kasai, l’Ituri.Come si concilia il diritto a sedere nel tempio della diplomazia con l’incapacità di garantire l’incolumità dei propri cittadini? È il riflesso di un mondo multipolare in cui i diritti umani valgono meno dei rapporti geopolitici e in cui le elezioni in sede ONU rispondono più a logiche di equilibrio regionale che a criteri etici.L’M23 è tutt’altro che un gruppo autonomo. È il prodotto – politico e militare – di una rete di interessi che collega Kigali a Goma, che passa per la gestione delle miniere di coltan e che si alimenta con la debolezza delle istituzioni congolesi. La stessa HRW ha ribadito nel suo rapporto il sostegno sistemico del Ruanda al gruppo armato. Ma il Consiglio di Sicurezza, dove ora siederà la RDC, non è riuscito finora a varare alcuna sanzione incisiva contro il governo di Paul Kagame.Nel frattempo, la missione MONUSCO, la più longeva operazione di peacekeeping delle Nazioni Unite, è diventata simbolo del fallimento: incapace di proteggere i civili, inefficace nel disarmare i gruppi armati, invisa alla popolazione locale. Ed è proprio mentre MONUSCO si ritira gradualmente dal Paese, che il numero di morti civili torna a crescere vertiginosamente.L’ingresso della RDC nel Consiglio di Sicurezza dovrebbe rappresentare un’occasione per porre finalmente la questione del Congo orientale al centro dell’agenda internazionale. Ma sarà così? O si tratterà di una semplice presenza simbolica, buona solo per la diplomazia di facciata? Le parole pronunciate a New York non restituiranno la vita ai giovani giustiziati a Kasika, né impediranno al prossimo villaggio di subire la stessa sorte.Il paradosso è tutto qui: una nazione che non riesce a proteggere i suoi figli, che non riesce a controllare il proprio territorio, che è in parte occupata da milizie armate finanziate dall’estero, siederà nei prossimi due anni tra coloro che decidono quando e dove scoppierà la prossima guerra.E forse, proprio questa, è la fotografia più nitida del mondo in cui viviamo.