“Guardatevi allo specchio. Quel volto che vi trafigge con il suo duplice sguardo rivela un segreto che dovrebbe rendervi più umili: state guardando negli occhi di un predatore. La maggior parte dei predatori ha gli occhi in posizione frontale, perché la vista binoculare rende più facile avvistare e inseguire la preda. Le prede, invece, hanno gli occhi in posizione laterale, perché hanno bisogno soprattutto della visione periferica per accorgersi se qualche predatore si avvicini strisciando alle loro spalle. Probabilmente le città sono chiamate giungle di cemento anche perché le loro strade sono piene di devoti predatori”.Diane Ackerman, in Storia naturale dei sensi, così dipinge noi esseri umani. Ha ragione, soprattutto nella contemporaneità. A leggere i giornali siamo nel pieno di una ininterrotta fioritura di violenza predatoria, e non parlo delle guerre vicine e lontane, delle ininterrotte stragi di civili. No, mi riferisco alla violenza predatoria di casa nostra, reale come virtuale, che sempre più spesso emerge proprio là dove, invece, dovrebbero esserci anticorpi, protezione, sicurezza: le famiglie, la scuola, i centri del sapere.All’università di Bari viene cancellata con un tratto di penna la parola femminicidio dalla sedia dedicata alla memoria di Ilaria Sula, studentessa uccisa dal fidanzato. A Catania un docente accusato di ripetute molestie sessuali da numerose studenti, con prove evidenti, viene assolto perché il contatto fisico imposto non è stato fatto con le dita, ma solo con il palmo della mano: due dei giudici sono donne. Il dibattito sul femminicidio della giovanissima Martina Carbonaro si fissa sul fatto che lei fosse ‘fidanzata’ da quando aveva 12 anni, assolvendo in parte l’assassino che, come di consueto, tende a sparire dall’orizzonte del discorso pubblico. Un professore di tedesco ha interrogato l’intelligenza artificiale (la sua non era sufficiente) su come insultare la premier: il perspicace risultato è, guarda un po’, l’augurio che la bambina della Presidente del Consiglio subisca la stessa sorte di Martina. Mi scuso, si è giustificato il docente, è stata la AI, ma ora la vittima sono io, mi stanno linciando. Prova a suicidarsi, si salverà.I predatori, digitali o meno, chiedono scusa dopo che il male è fatto sapendo che comunque non saranno né gli ultimi, né gli unici, né i peggiori e che, talvolta, saranno persino encomiati. I trascorsi due decenni di mutazione antropologica digitale hanno indirizzato la paura in meandri inediti: chi usa la violenza ha sempre meno paura del giudizio negativo, della riprovazione sociale, della vergogna perché sempre più sono proprio i predatori ad avere successo, fama, denaro e consenso, a livello locale così come planetario. Sono le persone miti, quelle che provano a riflettere prima di parlare o agire, sulle conseguenze delle loro parole e azioni, che hanno più spesso paura, perché sanno di essere bersagli facili.Silvia Brena, giornalista e co-fondatrice, con la docente di Diritto costituzionale Marilisa D’Amico, di Vox-Osservatorio Italiano sui Diritti, sostiene che siamo davanti ad un pericoloso rischio di sottovalutazione del discorso d’odio, che ormai tracima quotidiano e indisturbato sia nella realtà come nella virtualità. “Crediamo ancora che il linguaggio d’odio sia una leggerezza, che i social possano essere una sorta di sfogatoio. Ma il passaggio dall’odio al crimine è stato più volte dimostrato dalle ricerche. Quello del professore è un gesto criminogeno. E ha una valenza pesantissima perché è proprio dalla scuola che bisogna partire per lavorare sull’educazione”.Sono solo parole, si sente dire in giro. E quindi è sufficiente chiedere scusa, dopo; mica ho colpito fisicamente, non lo farei mai. Da poco Vox ha pubblicato l’ottava mappa dell’intolleranza. Dall’analisi di oltre un milione di messaggi sulla piattaforma X emerge che la categoria in assoluto più colpita è (che sorpresa) quella delle donne, seguite da stranieri, ebrei, persone omosessuali e con disabilità. Roma e Milano le città con le percentuali più alte di hate speech. Ma nelle città piccole, come in quelle più grandi, sono all’ordine del giorno risse tra ragazzi sempre più giovani (non solo nelle zone del degrado); nelle scuole non fanno più nemmeno notizia le aggressioni tra persone adulte di riferimento, familiari contro docenti. Si è riabbassata l’età media degli stupratori di gruppo, nelle chat tra maschi a scuola fioccano domande tipo: secondo te chi meritava di più di essere uccisa tra Cecchettin, Tramontano e Anastasi? Segue la votazione.Parole come limite, responsabilità, misura, rispetto, empatia, conflitto, critica, che sono state i cardini simbolici sui quali si sono incentrate la teoria e la pratica politica dell’ecologismo e del femminismo, sembrano pericolosamente sbiadire nell’orizzonte intossicato dalla violenza diffusa e autorizzata, vuoi dalla rabbia (a sinistra) così come dalla protervia (a destra).“Non devi aver paura,” spesso abbiamo detto per incoraggiare a sbocciare e ad autorizzare nell’azione chi mostrasse timidezza ed esitazione. Forse abbiamo sbagliato: forse sarebbe bene, in questi tempi tremendi di violenza mascherata da normalità e diventata strumento legittimo, metterci davanti allo specchio, e avvertire la paura per come potremmo diventare predatori, se non ci fermiamo in tempo.L'articolo Attenzione alla violenza predatoria in casa nostra, reale e virtuale proviene da Il Fatto Quotidiano.