L’onnipresenza del poliestere nei vestiti comporta problemi enormi. Microplastiche in primis

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Quando è stato messo in commercio, nel 1948, il poliestere è stato accolto con grande entusiasmo: leggero, elastico, resistente, si asciuga rapidamente e non ha bisogno di stiro. All’epoca, probabilmente, nessuno immaginava che poco più di settant’anni dopo – nel 2023 per la precisione – avrebbe rappresentato il 57% della produzione globale di fibre tessili. Per un volume complessivo di 71 milioni di tonnellate.In termini ambientali, questa onnipresenza del poliestere – e delle fibre sintetiche più in generale – comporta problemi giganteschi. Perché è vero, la sua produzione consuma poca acqua (soprattutto se paragonata al cotone), ma la materia prima è pur sempre il petrolio: nel 2022 a livello globale ne ha consumati 70 milioni di barili. Insomma, fabbricare poliestere significa continuare a estrarre, trasportare e raffinare il petrolio e poi sottoporlo a reazioni chimiche di polimerizzazione. Tutto questo comporta emissioni di CO2 e, quindi, accelera il riscaldamento globale.Non è finita qui: di lavaggio in lavaggio, i capi in poliestere rilasciano microplastiche che passano attraverso i filtri delle lavatrici finendo nei fiumi e, da lì, nei mari. Un fenomeno che non vediamo nemmeno a occhio nudo ma che ha un impatto allarmante, se considerato a livello globale.Negli oceani ci sono 1,4 milioni di miliardi di microplastiche primarie, cioè rilasciate direttamente sotto forma di particelle e non derivanti dalla degradazione di oggetti più grandi. Di questi 1,4 milioni di miliardi, il 35% deriva proprio dal lavaggio di capi sintetici. Un’enormità. Tanto più perché sono microplastiche che noi mangiamo e beviamo ogni giorno, con effetti sulla salute ancora in gran parte sconosciuti.Ciò significa che il poliestere è il male e dobbiamo evitarlo a tutti i costi? Non esattamente. Ci sono applicazioni per cui è la migliore possibilità. Nessuno si sognerebbe di fare un tuffo al mare indossando un costume in lana, come si usava ai primi del Novecento. Vale lo stesso discorso per pile, intimo termico, giacche impermeabili e antivento, abbigliamento tecnico da running, sci, trekking, ciclismo e altri sport: per ottenere una performance accettabile, dobbiamo ricorrere al poliestere.Un consumatore responsabile potrebbe, come prima cosa, controllare l’etichetta prima di ogni acquisto e optare per il poliestere solo per le tipologie di capi per cui può essere la scelta ottimale. Come del resto bisognerebbe fare per qualsiasi altra fibra, compresi cotone, lana e così via.L’uso massivo del poliestere a cui abbiamo assistito negli ultimi anni è spinto principalmente dalla tendenza a ridurre i costi di produzione: optare per una fibra meno cara aumenta i margini, ma non è detto che sia la più indicata per il tipo di capo. Per una camicia o una maglia, ad esempio, materiali naturali come cotone o lino sono senza dubbio più appropriati (e comodi), anche perché traspiranti.Dopodiché si apre il vasto capitolo del riciclo. Sui 71 milioni di tonnellate di poliestere prodotti nel 2023, il 12,5% (8,9 milioni di tonnellate) proveniva dal riciclo – ma attenzione a quale riciclo! Nella quasi totalità dei casi (il 98%), il materiale di partenza sono le bottiglie di Pet – per intenderci, quelle dell’acqua e delle bevande. La qualità è la stessa, tant’è che non ci accorgiamo nemmeno della differenza, ma l’impatto ambientale è considerevolmente più basso. Per produrre una tonnellata di poliestere riciclato si impiegano il 90% di sostanze tossiche in meno, il 60% di energia in meno e il 40% di emissioni in meno rispetto alla sua controparte vergine.L’ottimale, tuttavia, sarebbe il poliestere riciclato da altro poliestere (in gergo si dice textile to textile): in questo caso, però, i processi di riciclo non sono ancora del tutto sviluppati, anche perché spesso nella composizione dei capi questa fibra viene mixata con altre e questo complica le cose. Ma come facciamo a capire se il pile che stiamo per comprare è riciclato o meno? Attraverso le apposite etichette: Global Recycled Standard (GRS), Recycled Claim Standard (RCS) e SCS Recycled Content Standard.C’è un altro aspetto a cui fare attenzione: se l’etichetta riporta tante fibre presenti in piccola percentuale, vuol dire che quel capo d’abbigliamento non sarà riciclabile. Ciò significa che la qualità del capo che acquistiamo è fondamentale sia per la sua durata sia per la sua riciclabilità. Sicuramente a fare una grande differenza è la fabbrica che produce il filo o il tessuto perché può ridurre l’impatto sui processi di trasformazione, ferme restando le considerazioni fatte fin qui sulla fibra. Ecco perché la qualità del capo fa la differenza, su tutto il suo ciclo di vita.Che dire invece delle microplastiche? Per rilasciare la minore quantità possibile ci sono vari stratagemmi: usare un apposito filtro per la lavatrice, lavare a basse temperature e diminuendo i giri della centrifuga, stendere i panni invece di ricorrere all’asciugatrice. Anche in questo caso, gli acquisti consapevoli fanno la differenza.Alcuni studi dimostrano che i tessuti rilasciano la maggior parte delle microplastiche nei primi otto lavaggi: è l’ennesimo buon motivo per comprare un po’ meno e un po’ meglio, prediligendo capi di buona qualità che durano più a lungo.L'articolo L’onnipresenza del poliestere nei vestiti comporta problemi enormi. Microplastiche in primis proviene da Il Fatto Quotidiano.