Una nuova inchiesta congiunta del New York Times, del Bureau of Investigative Journalism e di Der Spiegel ha rivelato dettagli inquietanti sui programmi statali e sulle azioni che il governo comunista cinese da anni compie nello Xinjiang e dintorni. Come noto, la regione è un luogo in cui si violano i più basilari diritti umani, dove è riconosciuta – dalle istituzioni europee, in particolare dal Parlamento europeo, e dal Congresso statunitense – l’esistenza di politiche soppressive contro l’identità, la cultura e la religione dei suoi abitanti, gli Uiguri. Lavori forzati, campi di rieducazione e di internamento, sparizioni di persone, famiglie e bambini, divieto di esprimere la propria fede e così via.La detenzione di massa e la sorveglianza dell’etnia uigura hanno trasformato la regione dello Xinjiang in un simbolo globale delle violazioni dei diritti umani e di schiavismo. Qui, infatti, in una vera e propria catena di montaggio che coinvolge diversi settori – tessile, minerario, energetico, per citarne alcuni – gli Uiguri sono costretti a condizioni disumane a lavorare e produrre componenti e beni che poi vengono puntualmente impiegati da aziende di tutto il mondo.Le aziende internazionali potenzialmente coinvolte in questo atroce giro di sfruttamento sono numerose, basti ricordare il caso delle migliaia di Porsche, Bentley e Audi sequestrate nei porti americani lo scorso anno. Motivazione? Un fornitore del gruppo Volkswagen aveva trovato un componente cinese “Made in Western China” nei veicoli, in piena violazione delle leggi contro il lavoro forzato.È per questo che, dal 2022, è in vigore l’Uyghur Forced Labor Prevention Act, ossia il divieto sulle importazioni di prodotti dallo Xinjiang negli Stati Uniti. Lo descrisse molto dettagliatamente, un anno fa, una delegazione del US Department of Homeland Security in un incontro a Roma con la 4a commissione del Senato. Gli esperti – tra i tanti temi – sottolinearono l’assoluta priorità per Washington riservata nel contesto nazionale alle indagini, misure di prevenzione e sanzioni del lavoro forzato nella regione cinese.L’Unione europea ha emanato una legislazione simile a quella americana lo scorso anno, ma entrerà in vigore nel 2027.Eppure, la nuova inchiesta giornalistica spiega che anche quanto messo in campo fin d’ora per ostacolare e impedire il lavoro forzato degli uiguri potrebbe esser vano. Il governo cinese ha trovato un altro modo per aggirare i blocchi occidentali. Come? Trasferendo la popolazione uigura da sfruttare in fabbriche al di fuori dello Xinjiang. E i piani statali per letteralmente “deportare” queste persone sono molto più estesi di quanto si potesse immaginare.Si tratta di un vero e proprio programma di trasferimento della manodopera che in questi anni è riuscito ad aggirare le tante revisioni della catena di approvvigionamento e i numerosi controlli doganali che avrebbero dovuto individuare le merci da non importare. Ora USA e UE si trovano dinanzi una sfida significativa: perché localizzare le importazioni provenienti dallo Xinjiang è fattibile, mentre seguire il trasferimento e il trattamento dei lavoratori in tutto il territorio della Cina è nettamente più complesso.L’inchiesta giornalistica, basata su annunci governativi pubblici, rapporti dei media statali, contenuti nelle piattaforme digitali e documenti di ricerca, ha fatto emergere la portata – vastissima – dei trasferimenti di manodopera uigura. Lo stesso Presidente Xi Jinping, nel 2023, durante una visita nello Xinjiang rivolgendosi ai funzionari invitò loro di incoraggiare e guidare gli abitanti della regione a recarsi nell’interno della Cina per trovare lavoro. È chiaro che dietro queste parole, oltre al perseguire politiche liberticide e di lavoro forzato, vi era – e vi è tuttora – il preciso disegno di sradicare l’identità stessa degli uiguri, attraverso una vera e propria deportazione di massa.Se da un lato Pechino continua a dichiarare che le accuse occidentali rappresentano menzogne e delle vere e proprie interferenze negli affari politici interni, dall’altro lato vi è un aspetto inquietante che riguarda le nostre supply chains ma anche, in senso più generale, la nostra sicurezza.Innanzitutto, occorre una presa di coscienza collettiva occidentale del reale volto del regime cinese. Pechino continua, regolarmente, a proporre la sua versione, sostenendo che quello che a noi Occidentali appare “lavoro forzato” altro non è che un programma di aiuto all’occupazione. Non possiamo credere più a tali narrazioni: è tempo di chiamare le cose col proprio nome, vista anche l’espansione in tutto il territorio cinese di pratiche repressive assolutamente inumane.Raggiunta tale consapevolezza, è chiaro che non si possono più accettare compromessi e che una ben definita rimodulazione dei rapporti con Pechino debba esser compiuta. Per l’Unione europea e gli Stati Uniti la lotta contro lo sfruttamento della manodopera deve essere un fronte comune, e l’Occidente assieme alle altre democrazie non può che essere coeso nel portarla avanti.