I dazi di Trump sono frutto della democrazia malata. Ursula? Non verrà sfiduciata. Parla Maffettone

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A Strasburgo Ursula von der Leyen è sotto il fuoco incrociato anche se con ogni probabilità il tentativo di disarcionarla innescato dai conservatori e dai patrioti (Fratelli d’Italia ha deciso di sostenere la presidente della Commissione) si risolverà in un nulla di fatto. Intanto, da oltreoceano, Donald Trump torna a battere il tamburo dei dazi, benché l’Ue sia stata “graziata” fino al primo di agosto. A tanti altri Paesi, sono invece state recapitate le lettere del presidente Usa che contengono le specifiche sulle nuove imposizioni: dal 25 al 40%. Una strategia che fa tremare i mercati e segna, ancora una volta, il primato dell’annuncio sulla riflessione. Ne parliamo con Sebastiano Maffettone, filosofo politico, docente alla Luiss e interprete delle dinamiche democratiche contemporanee.Professore, Trump prosegue sulla strada dei dazi. Dal Giappone alla Serbia, passando per il Sudafrica. Che scenario si profila? È uno scenario disastroso. La guerra dei dazi non può favorire né l’economia dei singoli Paesi, né quella globale. È una strategia davvero strana. La mia impressione è che non conviene a nessuno. Anzi, alimenta ostilità e logiche di contrapposizione. Questa politica degli annunci virulenti è profondamente dannosa. È come se fosse tramontata l’era del discorso: parlarsi non serve più, ognuno recita una parte. Quando il discorso non funziona, resta solo la violenza. Che può essere guerra, oppure minaccia.È solo un tema economico o c’è qualcosa di più profondo in questa dinamica?La guerra dei dazi è uno degli epifenomeni della crisi della democrazia. Non si tratta solo di scambi commerciali. È la manifestazione evidente di un’assenza di fiducia nei processi deliberativi e nelle mediazioni istituzionali. Un tempo ci si parlava. Oggi ci si impone, con le tariffe e i tweet.Intanto in Europa, von der Leyen si difende dal fuoco incrociato della mozione di sfiducia. Come ne uscirà?Non credo subirà conseguenze gravi. È certamente un danno d’immagine, ma niente di irreversibile. Il punto vero è che oggi in Europa non c’è unità, né la volontà di costruirla. Si fanno appelli formali, ma poi ciascun Paese si chiude nelle sue prerogative.Il dossier più caldo è quello della Difesa comune. Al momento, oltre alla volontà dichiarata è poco più che un’illusione?Lo è. Gli Stati sono gelosi delle proprie prerogative. Chi critica la difesa comune dicendo che deve essere unitaria è, a mio avviso, un imbroglione. Non è un terreno su cui si può improvvisare. Il punto di partenza dovrebbe essere un rafforzamento serio delle spese nazionali. Il resto sono chiacchiere, spesso in malafede.Serve un nocciolo duro, allora?Certo. La Germania ha tutte le possibilità economiche per farlo. È, ancora oggi, il fulcro dell’Unione Europea. Invece di inseguire un consenso improbabile tra 27 nazioni, bisognerebbe costruire intese operative tra chi può davvero trainare: Germania, Francia, Italia, Spagna, Inghilterra e Polonia. Serve coordinazione, non retorica. Ma partendo dai singoli Stati.E l’Italia? Come si muove in questo scenario?L’Italia si muove male. Ma non è una colpa di Giorgia Meloni. Il problema è più profondo: c’è un forte sentimento anti-occidentale che attraversa la nostra storia politica. Erano anti-americani i comunisti, l’Msi, i cattolici di sinistra. E anche una larga fetta di intellettuali lo è ancora oggi.Però il governo si dichiara apertamente filo-americano. È sempre stato così. Anche perché non si può fare diversamente. Non conviene a nessuno. È vero che Trump fa di tutto per farti disprezzare l’America, ma non dimentichiamolo: Trump non è l’America in eterno.Guardando alla politica interna, cosa ci si può aspettare dalle prossime regionali?In regioni come Veneto e Campania, credo prevarrà la continuità. Forse qualche incertezza nelle Marche, ma nel complesso non prevedo scossoni. Le elezioni, in fondo, tendono a falsare il normale andamento delle cose. Sono istantanee più che traiettorie.E sul fronte delle riforme?Le ultime riforme vere le abbiamo viste negli anni ’60 e ’70. Da allora, poco. Anche sulla giustizia non nutro grosse aspettative. Le intenzioni con cui la riforma è fatta sono cattive. Ma, paradossalmente, il merito della riforma è buono.