di Riccardo Renzi – Tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta, il confronto bipolare tra Stati Uniti e Unione Sovietica conobbe una fase di attenuazione delle tensioni: la cosiddetta “distensione”. Questo processo, nato come reazione alla crisi dei missili di Cuba del 1962 e rafforzato da una serie di accordi sul disarmo e sul controllo degli armamenti strategici, segnò una trasformazione significativa nella dinamica della Guerra Fredda. A partire da un momento di altissimo rischio di conflitto nucleare, Washington e Mosca intrapresero un cammino di dialogo, culminato con trattati come il SALT I e l’Atto Finale di Helsinki. Tuttavia, le ambizioni geopolitiche, le crisi regionali e i mutamenti interni nei due blocchi misero progressivamente in crisi il processo, fino alla sua conclusione con la nuova fase di confronto negli anni Ottanta. Questo articolo ripercorre le tappe principali della distensione, ne analizza le cause e gli effetti, e ne evidenzia il significato storico nel lungo percorso verso la fine della Guerra Fredda e la dissoluzione dell’Unione Sovietica.La Guerra Fredda fu, per oltre quattro decenni, la principale chiave interpretativa dell’ordine internazionale. Divisa in fasi di acuta contrapposizione e momenti di dialogo, essa vide nei primi anni Sessanta un punto di svolta decisivo: la crisi dei missili di Cuba.Nel 1962, il mondo si trovò sull’orlo della guerra nucleare. La decisione sovietica di installare missili balistici a medio raggio sull’isola caraibica, a pochi chilometri dalle coste americane, rappresentava un atto di sfida diretto. In risposta, il presidente statunitense John F. Kennedy ordinò un blocco navale attorno a Cuba, evitando di proposito il termine “embargo” per non inasprire ulteriormente il confronto. Dopo tredici giorni di estenuante confronto, il premier sovietico Nikita Kruscev accettò di ritirare i missili in cambio di una promessa americana di non invadere Cuba e del successivo smantellamento (non pubblico) dei missili Jupiter statunitensi in Turchia.Da questo episodio emerse la consapevolezza, tanto a Washington quanto a Mosca, che un confronto diretto e incontrollato poteva portare alla catastrofe. Iniziò così un lento ma decisivo processo di dialogo e limitazione degli armamenti nucleari, che avrebbe inaugurato una nuova fase della Guerra Fredda.Per comprendere il ruolo di Cuba nello scacchiere internazionale, bisogna risalire alla sua trasformazione da ex colonia spagnola a quasi-protettorato statunitense dopo la guerra ispano-americana del 1898. L’isola, pur formalmente indipendente, restò a lungo sotto l’influenza politica ed economica degli Stati Uniti, finché il processo rivoluzionario guidato da Fidel Castro, culminato nel 1959, cambiò radicalmente la situazione.Le nazionalizzazioni imposte dal nuovo governo cubano danneggiarono gli interessi statunitensi, in particolare nel settore agricolo e industriale. Di conseguenza, Washington reagì con ostilità, sostenendo un tentativo di invasione da parte di esuli anticastristi nella Baia dei Porci (1961), fallito clamorosamente. Questo spinse Castro a rafforzare i legami con l’Unione Sovietica, trasformando Cuba in un avamposto comunista nell’emisfero occidentale.Da qui l’importanza strategica dell’isola e l’interesse sovietico a dotarla di armi nucleari, che avrebbe innescato la crisi del 1962. Il superamento della crisi non segnò solo un successo diplomatico, ma anche l’avvio di un nuovo stile di gestione delle relazioni tra le superpotenze: la distensione.La logica della deterrenza, pur garantendo una fragile stabilità, imponeva anche un limite. I costi esorbitanti degli armamenti e il rischio permanente di una guerra totale spinsero USA e URSS a limitare la corsa agli armamenti nucleari.Il primo risultato tangibile fu la firma del Limited Test Ban Treaty (LTBT) nel 1963, che vietava i test nucleari nell’atmosfera, nello spazio e sotto l’acqua. A questo seguì, nel 1968, il Trattato di non proliferazione nucleare (TNP), in cui le potenze dotate di armamenti nucleari si impegnavano a non trasferire tali tecnologie ad altri Stati e a promuovere l’uso pacifico dell’energia atomica.Questi accordi, pur non eliminando le armi nucleari, crearono un quadro normativo internazionale e avviarono un percorso di fiducia reciproca, fondamento indispensabile per la distensione degli anni Settanta.Con l’elezione di Richard Nixon nel 1968 e la nomina di Henry Kissinger a consigliere per la sicurezza nazionale, la politica estera americana visse una svolta pragmatica. La strategia della “diplomazia triangolare” mirava a sfruttare i contrasti tra URSS e Cina per ricalibrare l’equilibrio internazionale a favore degli Stati Uniti.La visita di Nixon a Pechino nel 1972 fu un evento storico che isolò diplomaticamente Mosca e incentivò la leadership sovietica ad avviare negoziati con Washington. Da questo rinnovato dialogo nacquero gli accordi SALT I (1972), che stabilivano limiti alla crescita degli arsenali strategici e fissavano vincoli ai sistemi antimissile (ABM).In parallelo, la visita del leader sovietico Brežnev negli Stati Uniti nel 1973 e gli incontri successivi a Mosca segnalarono il consolidarsi di un nuovo equilibrio nelle relazioni bilaterali, basato sul contenimento reciproco, sul commercio e sulla cooperazione scientifica.Se l’Asia era il teatro della diplomazia triangolare, l’Europa rappresentava ancora il cuore della competizione ideologica e strategica tra Est e Ovest. La divisione di Berlino, il muro costruito nel 1961, e la coesistenza forzata delle due Germanie rendevano urgente un chiarimento.Nel 1975, con la firma dell’Atto Finale di Helsinki, trentacinque Paesi (compresi Stati Uniti e URSS) sancirono il rispetto dei confini esistenti, il principio della non interferenza, ma anche il riconoscimento dei diritti umani, della libertà di pensiero e religione.Helsinki consolidò lo status quo, ma innescò anche dinamiche di lungo periodo: i principi sottoscritti diventeranno strumenti di opposizione pacifica all’interno dei regimi comunisti. Movimenti come Charta 77 in Cecoslovacchia o Solidarnosc in Polonia si rifaranno proprio a quei valori.Nonostante i progressi diplomatici, la distensione mostrò sin da subito limiti evidenti. Le divergenze ideologiche, le rivalità nei “paesi terzi” (Africa, Medio Oriente, America Latina), e l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979 segnarono un nuovo punto di crisi.La firma degli accordi SALT II (1979) fu presto oscurata dall’aggressività sovietica percepita in Occidente, e dal mutamento della politica statunitense sotto la presidenza di Ronald Reagan, che scelse una linea più dura, riprendendo la corsa agli armamenti e aumentando la pressione ideologica.La fine della distensione coincise con una crisi sistemica del modello sovietico. L’economia stagnante, l’incapacità di competere con l’Occidente e le crescenti spinte indipendentiste all’interno dell’URSS portarono all’avvento di Michail Gorbaciov (1985), che tentò di riformare il sistema con la perestrojka (ristrutturazione) e la glasnost (trasparenza).Il processo però accelerò la disgregazione del blocco orientale. Il vertice tra Reagan e Gorbaciov a Reykjavík (1986) e la firma del trattato INF (1987) sulla riduzione degli euromissili segnalarono l’inizio della fine della Guerra Fredda.Nel 1989 crollò il Muro di Berlino, nel 1991 si dissolse l’Unione Sovietica. La distensione, pur fallendo nel mantenere la stabilità a lungo termine, favorì una transizione senza conflitto diretto tra le superpotenze. Fu questo il suo lascito più importante.Il periodo della distensione fu una fase cruciale della Guerra Fredda. Pur segnata da ambiguità, rivalità latenti e ritorni di tensione, rappresentò un tentativo consapevole di gestione del conflitto ideologico globale, mediante strumenti diplomatici e accordi multilaterali. Se il suo fallimento evidenzia i limiti strutturali del confronto est-ovest, il suo successo parziale contribuì in modo decisivo ad aprire la strada al cambiamento storico degli anni Novanta. In questo senso, la distensione non fu solo una parentesi, ma una prefigurazione della fine del mondo bipolare.