Etiopia. L’acqua come potere: la diga etiope e la partita esistenziale del Nilo

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di Giuseppe Gagliano – Nella disputa tra Etiopia ed Egitto sull’enorme diga della Rinascita, non è l’acqua a mancare, ma la fiducia. Da una parte Addis Abeba rivendica il diritto di usare il Nilo Azzurro per alimentare la crescita economica di un Paese dove metà della popolazione non ha ancora accesso stabile all’elettricità. Dall’altra il Cairo vede nella diga una minaccia diretta alla propria sopravvivenza: un flusso d’acqua ridotto significherebbe crisi agricola, tensioni sociali e destabilizzazione politica. È una partita che supera la tecnica idrica: riguarda la memoria storica, la sovranità, la capacità degli Stati africani di affrancarsi da vecchie gerarchie.L’Etiopia accusa l’Egitto di pensare ancora secondo logiche coloniali, quando trattati firmati tra potenze europee garantivano al Cairo un controllo quasi esclusivo sul Nilo. Oggi Addis Abeba rivendica un principio riconosciuto dal diritto internazionale: uso equo e ragionevole delle acque condivise. La sua narrativa è semplice e, dal punto di vista etiope, inattaccabile: il Nilo Azzurro nasce qui, contribuisce per l’86% al flusso totale del fiume e il Paese non può restare povero per proteggere la stabilità di altri. Ma l’Egitto legge questa posizione come un tentativo di ridimensionare i propri diritti storici e di imporre un regime idrico unilaterale.La retorica si fa sempre più dura. Per Addis Abeba, il Cairo alimenta campagne destabilizzanti nel Corno d’Africa per mantenere influenza sulla regione. Per il Cairo, l’Etiopia manipola l’opinione pubblica interna mentre fatica a gestire tensioni etniche e critiche verso il governo. Il risultato è una competizione narrativa che rende quasi impossibile un negoziato serio.La diga, con una capacità di 74 miliardi di metri cubi e una produzione prevista di oltre 5mila megawatt, è la chiave della modernizzazione etiope. Energia per illuminare le città, stabilizzare l’industria, attrarre investimenti e persino esportare elettricità verso i vicini. In un Paese di 130 milioni di abitanti, dove blackout e generatori privati sono la norma, il salto sarebbe colossale.Per l’Egitto, però, il rischio è altrettanto grande. L’agricoltura, che dipende quasi interamente dal Nilo, non sopporterebbe shock improvvisi nei flussi d’acqua. Secchezza dei suoli, riduzione dei raccolti, aumento dei prezzi alimentari e tensioni sociali sono scenari che il Cairo ripete come un mantra. L’equazione egiziana è brutale ma comprensibile: meno acqua significa meno stabilità interna. E meno stabilità interna, in un Paese di oltre cento milioni di abitanti, può diventare un problema regionale.Sebbene nessuno dei due Paesi voglia davvero arrivare allo scontro armato, la componente militare resta sul tavolo. Non tanto come preludio a un attacco alla diga, che sarebbe logisticamente complicato e politicamente devastante, ma come strumento di pressione. Il Cairo ha rafforzato legami con Somalia, Eritrea e Sudan, tutti Paesi in varie fasi di tensione con l’Etiopia. Addis Abeba, a sua volta, ha mostrato di saper mobilitare forze e opinione pubblica attorno alla diga come simbolo di sovranità nazionale. È un equilibrio fatto di segnali, posture e messaggi più che di piani operativi.Ma proprio perché nessuno dei due può permettersi un conflitto totale, la tensione rischia di incagliarsi in una spirale fatta di minacce, alleanze tattiche e provocazioni diplomatiche.In dieci anni si sono affacciati al tavolo Stati Uniti, Russia, Unione Africana, Emirati, Banca Mondiale. Tutti usciti sconfitti. Non per la mancanza di formule tecniche, ma per l’impossibilità di conciliare due visioni opposte: per l’Etiopia la diga è un trampolino verso la sovranità economica; per l’Egitto è una questione di sicurezza nazionale, identità e sopravvivenza.Sul piano geoeconomico, la partita è altrettanto delicata. Il Corno d’Africa è un nodo strategico della competizione tra grandi potenze. Stabilità e instabilità hanno qui effetti immediati su rotte commerciali, migrazioni, investimenti energetici. Se la disputa sul GERD esplodesse, l’intera regione ne pagherebbe il prezzo.La situazione attuale è uno stallo dinamico. Addis Abeba continua a riempire e attivare le sue turbine. Il Cairo continua a denunciare, minacciare, negoziare, cercare appoggi. Ma non c’è una strategia condivisa di gestione del rischio idrico in un contesto di cambiamento climatico: siccità più lunghe, stagioni imprevedibili, aumento dei consumi regionali.Se i due Paesi non troveranno un compromesso realistico, sarà il clima stesso a imporre una soluzione drammatica. E allora non basterà più parlare di trattati, sovranità o diritti storici: si parlerà di emergenze alimentari e di migrazioni forzate.In fondo, questo è il nodo che nessuna diplomazia ha ancora sciolto: la geopolitica dell’acqua non ammette vuoti. Chi non decide, verrà deciso dal fiume.