Silvia Labayru ha vissuto più di una vita. Figlia di militari, alla fine degli anni Sessanta frequentava una prestigiosa istituzione pubblica a Buenos Aires. È stata agguerrita militante di gruppi studenteschi di sinistra e ha fatto parte dei Montoneros, gruppo armato di ispirazione peronista. Labayru è una delle poche sopravvissute della Scuola di meccanica della marina (Esma), centro clandestino di detenzione e tortura durante gli anni della dittatura di Jorge Videla in Argentina, dove migliaia di persone sono state sequestrate e assassinate. Liberata, ha vissuto a Madrid dove è stata allontanata ed emarginata dagli argentini in esilio. “E tu perché sei viva?”, è la domanda che si è sentita ripetere in più di un’occasione. La sua storia è raccontata dalla giornalista Leila Guerriero nel libro “La chiamata”, pubblicato in Italia da Edizioni Sur con la traduzione di Maria Nicola.Labayru, nome di battaglia Mora, è stata sequestrata il 20 dicembre 1976 e rinchiusa nella Esma. Era incinta di cinque mesi. Sua figlia, partorita su un tavolo, le è stata portata via appena dopo la nascita per essere affidata ai nonni paterni. È stata torturata usando la “picana” (il pungolo elettrico) e inserita nel progetto “recuperación”, voluto dall’ammiraglio Emilio Massera: i prigionieri che avevano competenze utili al regime, erano utilizzati come risorse destinate a servire la dittatura. E Labayru – colta, poliglotta, proveniente da una famiglia dell’alta borghesia – era considerata adatta a essere riabilitata in un processo sadico che obbligava le donne a diventare amanti di un ufficiale, quindi a subire stupri e violenze, come parte del sistema repressivo e di rieducazione. Labayru fu costretta a essere l’amante di Alberto González, “bottino di guerra” anche di sua moglie che partecipava agli abusi. E obbligata a fingersi la sorella di Alfredo Astiz, ufficiale della marina infiltrato nel gruppo delle Madres de Plaza de Mayo in un’operazione che portò alla sparizione di tre madri e due suore francesi.Dal 2021 per un anno e sette mesi, Guerriero ha incontrato Labayru realizzando centinaia di interviste. Ha fatto domande anche alle amiche, ai familiari, all’attuale compagno e agli ex compagni di militanza. “Solo le trascrizioni degli incontri erano quasi duemila pagine a cui si aggiungevano il materiale degli archivi e i documenti ufficiali”, spiega Guerriero a ilfattoquotidiano.it. La scrittura è meticolosa, risultato di un lavoro di ricerca giornalistica che scava e che guarda “nelle periferie”. La chiamata è in primo luogo il racconto di una vita, ma anche di un terreno poco conosciuto della dittatura e del ritorno alla democrazia: la storia di chi sopravviveva e, dopo avere subito violenze e stupri, finiva per essere accusato di tradimento.Perché ha deciso di raccontare la storia di Silvia Labayru?Ne sono venuta a conoscenza grazie al fotografo Dani Yako, amico di entrambe, che mi aveva mandato un articolo, scritto dalla collega Mariana Carvajal, e pubblicato sul quotidiano argentino Página/12. Quando l’ho letto, mi è sembrato che il vissuto di Silvia riunisse tutti gli orrori della dittatura. Si aggiungevano alcuni aspetti molto particolari, come il fatto che l’avessero obbligata ad accompagnare Alfredo Astiz infiltrato negli incontri delle Madres de Plaza de Mayo. Era una vittima segnata da un forte stigma. Aveva poi una storia “a due sponde”: aveva vissuto molti anni in esilio in Spagna e, tornata a Buenos Aires, aveva preso parte come denunciante a uno dei primi processi in cui i militari sono stati accusati di avere stuprato le donne prigioniere nella Esma. Ce ne sono stati solo tre finora. Mi aveva colpito il suo equilibrio. Si percepiva un lavoro fatto su quell’esperienza così traumatica. L’ho incontrata e mentre continuavo a parlare con lei, ho capito che era impossibile ridurla alle pagine di un articolo. Sin dall’inizio sapevo che non sarebbe stato un libro sugli anni Settanta e sulla reclusione di Silvia nella Scuola di meccanica della marina, ma il ritratto di una persona. Una donna con contraddizioni, con luci e ombre, complessa. Tutto quello che mi raccontava sulla sua vita dopo la Esma, mi risultava estremamente magnetico. Come il fatto che avesse una relazione con un amore che era rimasto in sospeso proprio a causa della sua militanza in adolescenza.In quasi due anni ha realizzato centinaia di interviste con Labayru ma anche con le sue amiche, il compagno, i familiari. Dopo tutto il tempo che avete trascorso insieme, è stato difficile stabilire un limite?No. perché è il nostro lavoro come giornalisti. Non si tratta di diventare amici della persona intervistata, ma di raggiungere un livello di fiducia tale per cui l’altro percepisca che non sei una persona morbosa. Si può trovare un elemento in comune, magari culturale, ma un amico è una persona con cui si ha una relazione di andata e ritorno, direi confessionale. Non abbiamo smesso di scriverci o parlarci, anche dopo la pubblicazione del libro. È una relazione di complicità, ma non è un’amicizia perché credo che i giornalisti sappiano separare questi aspetti. Con Silvia la relazione continua perché il contatto è stato profondo. È stata generosa nel raccontarmi la sua storia: credo le piaccia essere informata su tutto quello che succede attorno al libro e voglio continuare a rispondere alle sue domande. È il minimo che possa fare.Quando è uscito il libro, Silvia che cosa le ha detto?Mi ha detto “me pillaste”, mi hai “sgamata”.Labayru ha affermato che le donne sono state un bottino di guerra nella dittatura ed è stata una delle tre donne che hanno testimoniato contro i militari, denunciando le violenze sessuali subite. Fino al 2010 lo stupro non era riconosciuto come un reato a sé stante. La condanna di González, che l’aveva violentata, è arrivata nell’estate del 2021.A Silvia il processo interessava molto. Quando si è aperta la possibilità di farlo, ha accettato subito. Voleva dimostrare che – oltre a commettere omicidi, torture e ogni genere di atrocità – questi delinquenti erano anche stupratori. Quando ha affrontato il processo, anche se l’Argentina era cambiata, la giustizia continuava a essere un ambiente profondamente maschilista. Le domande cui ha dovuto rispondere erano tremende, come: “Quante volte ti ha violentata?”. Silvia è stata una vittima ma tutto quello che ha vissuto, anche se l’ha segnata e ne può sentire ancora gli effetti, non è diventato un’ombra che l’ha paralizzata.Con l’esilio in Spagna, Labayru è stata isolata dai suoi ex compagni di militanza. Non è stata la sola a subire un allontanamento, che è toccato anche ad altre persone sopravvissute alla Esma. Ne era a conoscenza?Sì, ma mi ha sorpreso l’intensità del rifiuto. Chi l’ha subito, racconta sempre la stessa cosa: oltre alle torture e alle violenze, ha dovuto affrontare il silenzio, lo stigma e l’allontanamento da parte dei propri compagni. Era una doppia punizione: una imposta dalla dittatura e un’altra inflitta dal proprio ambiente. Nel caso di Silvia, è stato più duro. Molti la guardavano con sospetto, come se fosse stata una collaboratrice ma ovviamente non lo è stata. Era una vittima come tutte le altre, solo che le era toccato in sorte qualcosa di ancora più perverso. Mi ha colpito la sua capacità di parlare di tutto ciò con dignità e lucidità senza cadere nell’autocommiserazione, e con una forza straordinaria. Quando mi sono messa a scrivere, sapevo che dovevo farlo con il massimo rispetto e onestà. Era chiaro che non sarebbe stato un libro facile per entrambe, ma ne valeva la pena. Ci sono esperienze che, se non vengono raccontate, rischiano di essere dimenticate e l’oblio è un’altra forma di violenza.L'articolo “E tu perché sei viva?”. La storia di Silvia Labayrou, desaparecida stuprata da un militare e ripudiata dagli altri militanti proviene da Il Fatto Quotidiano.