Il sorprendente problema che abbiamo da qualche anno con la musica live

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Di ieri l’annuncio che anche la seconda data al milanese Alcatraz del tour 2025 de I Cani è andata sold out: per milanesi e limitrofi, tranquilli, niente ansia – ce n’è una terza in programma, senza contare le altre sparse in giro per l’Italia. Ora, il caso vuole che il sottoscritto era persona informata dei fatti quando un promoter all’epoca di peso in città disse testuale “Più di 700 euro per una data de i Cani non li do, prendere o lasciare”, bello eh? Ma la storia della musica è piena di questi aneddoti, di band inizialmente sconosciute su cui non tutti se la sentivano di scommettere e che poi, invece, esplodevano, facendo fare una brutta figura a posteriori a chi non aveva creduto in loro. Col senno di poi, saremmo tutti dei promoter e degli organizzatori di eventi fantastici; con la realtà dei fatti, è un lavoro dove vince chi sbaglia di meno – e chi ha più sangue freddo (e risorse alle spalle) nel continuare a scommettere anno dopo anno.Non è questo il punto di questo articolo. Il punto è molto diverso, ed è in qualche modo sorprendente. O, a ben vedere, scoraggiante.Ovvero: cosa è diventata la musica dal vivo.(Ah, se volete sentirvi 50 minuti di sproloquio senza filtri su quanto sia dopata oggi l’industria della musica dal vivo c’è questo, scusate la shameless self promotion; continua sotto)C’è stato un tempo, nemmeno troppi anni fa, in cui i tour si facevano giusto per vendere i dischi (infatti le major ma anche le etichette minori spesso li finanziavano, i tour). Poi è successo che i dischi non li comprava più nessuno e/o non avevano più valore, con l’avvento della musica liquida. Lì si è passati alla fase successiva: cercavi di fare dei buoni dischi, di cui addetti al settore in primis e pubblico in secundis parlassero bene, spargendo così una buona aura attorno al progetto e a quella specifica fase artistica della band, per poi poter fare in tal modo e sulla spinta della suddetta aura un tour di ragionevole e sostenibile successo, o almeno equilibrio economico.Una dinamica che si basava su un fatto: la gente ascoltava, e poi decideva se andare ad un concerto o meno. Il cuore del giudizio era, insomma, la musica. Il qui&ora della musica.Poi chiaro, il fenomeno del revival e della affezione nostalgica c’è sempre stato, quante cover band signora mia!, quante serate anni ’60, ’70, ’80!, per carità, ci mancherebbe; ma era palesemente un filone minore, secondario, dozzinale; un filone dedicato a posti dall’ingresso libero e consumazione obbligatoria, e dalla clientela così indistinta e generalista che sapevi che non avrebbe mai sganciato soldi veri per andare ad un concerto, se non qualcosa di conclamatamente e sguaiatamente mainstream.C’era qualche eccezione a questa regola, per cui la nostalgia e la coverizzazione (di altri, o di se stessi) non era più un disvalore: ovvero, quando un artista diventava così grande e così mitologico – e magari, diciamolo con un po’ di cinismo, così suscettibile all’essere sul punto di tirare le cuoia o di appendere lo strumento al chiodo – che al concerto ci andavi a prescindere, “Metti mai sia l’ultima volta che lo posso vedere dal vivo”. Però anche nel caso dei gruppi più enormi, pensiamo che so ai Rolling Stone, per un po’ di tempo c’era comunque bisogno prima di un tour di far uscire un disco come minimo decente e presentabile, per convincere la gente ad acquistare il biglietto, un necessario segno di vita, la dimostrazione che il l’encefalogramma creativo non era piatto. Oggi, manco quello. Che poi i Rolling Stone sono l’eccezione, sono la rarità: in generale se facevi un disco che andava male e/o che era abbastanza ignorato dal mercato, le speranze di fare un tour che andasse bene e che fosse ben pagato erano nulle o quasi. Il pensiero implicito era infatti: “Se hai fatto un disco che non convince, difficile che tu riesca a fare un concerto convincente dal tour che ne esce. Quindi scusa, ma non spendo soldi per andare a vederti”.Tutto questo era, come dire?, severo ma giusto: c’era comunque un principio di meritocrazia, c’era comunque un seme di attenzione ai contenuti.Da qualche tempo a questa parte, non c’è nulla di tutto questo.Da qualche tempo a questa parte, non vai più ad un concerto per la musica, almeno come focus primario; no, vai ad un concerto perché fa figo esserci. O, corollario, perché comunque ti piace lo spettacolo: e quindi se una band o un cantante non ha ledwall, fuochi, miccette, paillettes, allora il suo show vale la metà – e/o vive fuori dal mondo, è un rottame del passato che non ha i soldi o non ha la prontezza mentale per adeguarsi ai tempi moderni. Figuriamoci poi se non fa sold out. Se non suona all’Alcatraz o al Fabrique. Se non suona nei palasport. Se non suona negli stadi.Ok, vi starete dicendo: va bene, ma I Cani che c’entrano in tutto questo? Perché è da lì che eravamo partiti. E quindi?…e quindi, guardate qui, scorrendo però le slide: Visualizza questo post su Instagram Un post condiviso da DNA concerti (@dna_concerti)Sì, l’annuncio della terza data all’Alcatraz, che è la cosa da cui siamo partiti, ma anche quattro date a Bologna (con una quinta in arrivo), idem Roma, il raddoppio a Torino in una location grande come il Teatro Concordia, il sold out a Padova, date doppie a Firenze, Molfetta, Napoli.Da un lato tutto questo ci fa piacere: perché I Cani di Niccolò Contessa sono semplicemente il progetto che ha fatto fare il salto di qualità all’indie italiano, traghettandolo dalla nicchia di loser a musica generazionale e popolare. Come tutti gli antesignani, lo ha fatto per caso e non per calcolo, lo ha fatto restando solamente se stesso (anche perché non c’erano altri punti di riferimento simili). Se il panorama della musica pop italiana è cambiato ed ha incamerato come nuova “formula magica” il concetto o il suffisso di indie, cosa di cui hanno giovato Calcutta e Thegiornalisti, Gazzelle e Carl Brave, ma gli esempi sarebbero tantissimi, è perché è stato Contessa coi suoi sodali a cambiare le regole del gioco. È una storia vecchia che, in musica, chi semina non è poi quello che raccoglie: basti pensare a Casino Royale e Subsonica, stando alla musica di casa nostra. Per questo motivo non può che farci felici che ora, finalmente, i Cani possano fare numeri seri anche dal vivo (…cifre alla mano, avrebbero potuto fare anche i palasport, sommando ad esempio i biglietti venduti nelle città pluri-sold out).Al tempo stesso, però, è un segnale per niente bello.I Cani stanno raccogliendo oggi un pubblico pagante dal vivo che mai hanno avuto in passato, praticamente lo hanno decuplicato. E lo stanno facendo dopo anni ed anni di silenzio, di nulla o quasi, e dopo un disco del rientro – “Post Mortem” – che indipendentemente da cose ne pensiate voi personalmente è un album che non ha lasciato quasi nessuna traccia né nelle classifiche di stream, né nell’immaginario collettivo.Com’è possibile?(Ascoltatevelo intanto, “Post Mortem”, visto che non l’hanno fatto in troppi; continua sotto)È possibile perché la tua valutazione sull’andare a sentire o meno i Cani nel 2025 non è basata sul loro output musicale recente, ma su quanta coolness si è accumulata su di loro col passare degli anni, accumulata tra l’altro loro malgrado, senza che loro lo volessero e senza che loro facessero nulla per farla accumulare. Vai a vedere I Cani (anche) perché ti piace la loro musica, chiaro, dubitiamo ti faccio schifo e tu sia un masochista, ma in realtà soprattutto perché così tu dimostri di saperla lunga, di “riconoscere” chi sono i veri padri dell’indie, di essere uno che vai nei posti giusti coi gruppi giusti, uno che ne sa. Ora: come appena argomentato I Cani sono effettivamente, per mille motivi, un gruppo “giusto”, ma lo sono stati soprattutto nei primi anni di vita del progetto, è lì che hanno davvero cambiato le regole del gioco, è lì che la loro musica ha avuto un impatto. Ovvero quando una seconda data al Locomotiv (capienza: 700) era salutata con lo stesso entusiasmo e sorpresa che oggi genera una quinta data all’Estragon (capienza: 2300).Capite che c’è qualcosa che non va?Proviamo a vedere il bicchiere mezzo pieno: diciamo allora che oggi le persone hanno capito, molto più di quanto capissero nei primi anni ’10, quanto sia importante supportare dei musicisti andandoli a vedere dal vivo. Ipotesi bella, ma che cade miseramente nel momento in cui si nota quanto disastrosa sia la situazione del circuito live italiano: perché tolti i grandi eventi e i grandi nomi, tolti quei concerti che fanno andare in brodo di giuggiole chi analizza trionfalmente i report SIAE e i numeri col segno “+” davanti (ennesima dimostrazione di quanto i numeri non siano un indicatore totale e definitivo della salute della musica), tolto tutto questo, la verità è che in Italia il circuito della musica live di base – i live club sparsi in giro per l’Italia – fa grandissima fatica, soprattutto nei posti perfetti per fare da culla agli emergenti, ai progetti ai primi passi: quelli più meritevoli e bisognosi di supporto, se uno ci e gli crede davvero.Quindi no, scusate, l’ipotesi che il pubblico sia diventato improvvisamente consapevole dell’importanza dei live per supportare gli artisti di valore la scartiamo. Sorry. Teniamo invece quella per cui il concerto non è più un concerto – quindi una roba di musica – ma è un evento, è un qualcosa di socialmente qualificante e socialmente spendibile per fare bella figura, ma poi in realtà di cosa accade realmente sul palco e di quanto meriti i tuoi soldi te ne importa il giusto; che è la stessa identica parabola del teatro in Italia, diventato un posto dove ti fai l’abbonamento non tanto e non solo per gli spettacoli, ma perché ti qualifica in un certo modo, fa “prestigio”, ti dà una rispettabilità presso un certo tipo di ceto sociale.Ma noi, vogliamo veramente diventare questa cosa?È il caso di farsi qualche domanda prima che sia troppo tardi: ovvero prima che non solo l’indie in sé ma proprio tout court l’idea di concerto diventi semplicemente una moda, un accessorio da sfoggiarePoi per carità. Lo sappiamo: è brutto che stiamo in qualche modo colpevolizzando tutte le persone che hanno comprato un biglietto per questo tour 2025 de I Cani, ovvero persone che a) spendono tangibilmente per la musica b) spendono soldi per un gruppo che merita c) supportano una realtà che rischiava di finire nel dimenticatoio, come ad esempio sono finiti nel dimenticatoio o quasi dei padri ancora precedenti dell’indie italiano, ovvero gli Amari ad esempio, e non solo loro.Però forse è il caso di farsi qualche domanda prima che sia troppo tardi. Ovvero prima che non solo l’indie in sé ma proprio tout court l’idea di concerto diventi semplicemente una moda, un accessorio da sfoggiare. Da sfoggiare, e poi da dismettere quando la moda passa, passando ad altro. I concerti, te li godi davvero se ci vai per la musica: per tutto il resto c’è Instagram, e va bene, ci sono le Stories, c’è TikTok, ci sono i WhatsApp agli amici, tutte cose normalissime nel 2025 e da non demonizzare, ma se diventano davvero loro la driving force rispetto alle tue scelte di consumo culturale allora sì, abbiamo un problema.“Ma cosa vuoi da me, io ai Cani ci vado perché mi sono sempre piaciuti“; “Ma cosa vuoi da me, ora devo sentirmi fare la predica anche se vado ai concerti, mentre prima me la facevate se non ci andavo“; “Ma cosa vuoi da me, saranno cazzi miei se mi voglio divertire come mi voglio divertire“; “Ma cosa vuoi da me, ieri ero da Nick Cave dove le luci erano al minimo e la scenografia inesistente, la musica vera se la vuoi cercare in giro c’è“; “Ma cosa vuoi da me, de I Cani non me ne frega un cazzo e non andrei a vederli manco morto“. Le sentiamo già, queste obiezioni. Però a furia di non ricordarci che i grandi trend – che poi creano grandi dinamiche economiche – sono un fattore collettivo e quindi anche una responsabilità collettiva, sono troppe le cose che stiamo facendo andare a ramengo. Per poi lamentarcene – quando però ormai è già troppo tardi. The post Il sorprendente problema che abbiamo da qualche anno con la musica live appeared first on Soundwall.