Il grande bluff del decalogo contro le pressioni commerciali in banca: una liturgia vuota

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Il ritorno delle pressioni commerciali nei gruppi bancari non è una novità, ma una piaga strutturale che si ripresenta puntualmente ogni volta che i margini finanziari si assottigliano e le direzioni generali decidono di trasformare ogni sportello in un bazar finanziario. A dieci anni dall’uscita di Io so e ho le prove e degli altri miei libri, dopo centinaia di articoli e analisi in cui ho denunciato le degenerazioni della malafinanza, la musica non è cambiata.Oggi, con i tassi d’interesse in calo e i ricavi da fondi e polizze in contrazione, il copione si ripete: i dipendenti bancari tornano sotto pressione (ma non denunciano, perché vige un’omertà silenziosa, alimentata dalla paura e dall’abitudine), i clienti diventano prede (ma non reagiscono, accecati dall’ignoranza e dall’avidità), e i dirigenti manifestano apparente sorpresa, ma spesso orientano le proprie scelte alla salvaguardia di posizioni e convenienze personali.Ultima pantomima in ordine di tempo: il “Decalogo contro le pressioni commerciali”, che la Fisac-Cgil, così come riportato da Il Sole 24 Ore del 12 luglio scorso, ha rilanciato nel recente caso di Intesa Sanpaolo, presentandolo come strumento di tutela dei lavoratori. Ma chi conosce davvero il settore sa bene che si tratta di una liturgia vuota, un esercizio di cosmesi sindacale che non scalfisce minimamente le dinamiche profonde di un sistema malato.Il decalogo parla di anonimato delle segnalazioni per sollecitare i dipendenti a denunciare le pressioni. Ma, come ho scritto nel 2018 su queste pagine, l’ambiente bancario è divenuto un luogo in cui vige la cultura del sospetto e del subdolo controllo. Appena emerge una denuncia, parte una caccia alle streghe tra chi è in fondo alle classifiche, tra chi osa alzare la testa, tra chi ha ancora un barlume di coscienza. Le pressioni non spariscono, si fanno più sottili, più infide. Come scrivevo allora, «in banca la morale è morta, e il bancario si è trasformato da consulente a venditore d’assalto», valutato solo in base alla sua capacità di “piazzare” prodotti, non di consigliarli con onestà.Anche il divieto delle classifiche individuali è un bluff. Ufficialmente abolite, le “performance list” continuano a circolare nei gruppi WhatsApp dei capi-area, su file Excel condivisi con discrezione, e diventano l’arma con cui umiliare pubblicamente chi non raggiunge gli obiettivi. Non è raro — e io so e ho le prove — che queste classifiche non siano più ordinate dal primo all’ultimo, in base all’efficienza commerciale (considerata troppo antisindacale), ma costruite utilizzando indicatori cromatici: un pallino rosso se sei sotto budget, giallo se sei in linea, verde se stai superando gli obiettivi. Un sistema subdolo per identificare i “buoni e i cattivi” e far circolare tra i colleghi, e ancor più tra i capi, messaggi distruttivi come «Non sei adatto alla rete» o «Sei un peso per il tuo team». Il risultato è un clima di terrore mascherato da “spirito di squadra”.Il punto è che il problema non è solo sindacale, ma culturale. La banca, negli ultimi venti anni, ha perso il suo ruolo sociale e la sua credibilità. La relazione con il cliente è stata sacrificata sull’altare della trimestrale. Come ho più volte ripetuto, si è affermata una logica in cui “fregare il cliente e salvare la faccia” diventa il vero mantra. Il lavoratore, già poco coraggioso, lasciato solo, senza tutele vere, è costretto a scegliere: o obbedisce, o scompare. Il cliente, accecato dall’illusione del rendimento facile, non fa domande. Il dirigente, spesso complice, copre, nega e insiste.Serve ben altro che un decalogo. Serve un’azione coraggiosa da parte della politica, delle autorità di vigilanza, dei media indipendenti, e anche di quelle figure interne alle banche che ancora credono nel proprio mestiere.Ma serve anche, finalmente, una vera riforma della governance bancaria. Finché non si metterà mano a regole nuove su requisiti professionali, onorabilità, durata dei mandati e compensi dei vertici, continueremo ad assistere a questo suicidio collettivo in giacca e cravatta. Come si può selezionare un top manager o un buon consigliere di amministrazione senza cadere nella cooptazione autoreferenziale o nel clientelismo politico-finanziario?La prima barriera è quella della competenza autentica e multidisciplinare: non servono solo esperti di finanza, ma anche figure con visione sociale, sensibilità ambientale, senso di responsabilità collettiva. Un consiglio di amministrazione non dovrebbe essere un club di tecnici o di giuristi d’élite, ma un organismo plurale, capace di leggere il mondo che cambia e i bisogni delle comunità.Quanto all’onorabilità, basarsi unicamente sul certificato dei carichi pendenti è ridicolo. Dovremmo iniziare a considerare anche indicatori reputazionali più articolati: esperienze nel settore no profit, impegno civico, valutazioni provenienti dai territori. Se oggi diamo peso alle recensioni su una pizzeria lette su TripAdvisor, perché non possiamo considerare anche le “referenze sociali” di chi aspira a guidare un istituto che gestisce i risparmi e la fiducia di milioni di persone? Finché continueremo a tollerare questo modello — e a mascherarlo con regolamenti che nessuno applica davvero — il sistema bancario continuerà a perdere ogni residuo di credibilità. E con lui, la fiducia dei clienti e la dignità di chi, in filiale, ci mette la faccia ogni giorno.Finché continueremo a tollerare questo modello — e a mascherarlo con regolamenti che nessuno applica davvero — il sistema bancario perderà ogni residuo di credibilità. E con lui, la fiducia dei clienti e la dignità di chi, in filiale, ci mette la faccia ogni giorno.L'articolo Il grande bluff del decalogo contro le pressioni commerciali in banca: una liturgia vuota proviene da Il Fatto Quotidiano.