In Italia le medaglie, di solito, finiscono appuntate sul petto di cantanti da festival o direttori d’orchestra in smoking. È per questo che ha colpito molto, lo scorso anno, quando il presidente Sergio Mattarella quando ha deciso di premiare col titolo di Cavaliere della Repubblica un uomo che lo smoking non lo ha mai indossato. Si chiama Fabrizio Poggi, ha 67 anni e da più di quattro decenni soffia dentro un’armonica come fosse l’unica lingua rimasta per dire quello che ha dentro.La notizia ha fatto sorridere chi lo conosce: il blues, nato tra piantagioni e bassifondi, è entrato a Palazzo (del Quirinale). Un paradosso, certo. Ma anche una sorta di giustizia, questa volta però scattata in ritardo. Eppure Poggi non ha mai suonato per mostrare, ma – parole sue – “per restare vivo”. E quando gli chiedi che effetto gli faccia essere diventato Cavaliere della Repubblica, lui scuote la testa: “Non io. È l’armonica a essere stata nominata Cavaliere”. Non è modestia di circostanza. È che i titoli, lui, non li ha mai inseguiti.Il suo percorso è una mappa disseminata di incontri e riconoscimenti: una nomination ai Blues Music Awards di Memphis, gli Oscar del blues, competendo persino con i Rolling Stones, dischi in compagnia di Guy Davis, tournée ovunque ci fosse un palco. Negli Stati Uniti lo conoscono, lo rispettano, lo ascoltano. È il bluesman italiano più noto oltreoceano. Ma non è mai diventato una star. E la verità è che non gli interessa: Poggi non ha mai recitato la parte del bluesman.Il suo ultimo disco si intitola Healing Blues. A guardare la copertina – lui con l’armonica sul cuore, un cappellino blu, niente orpelli – si potrebbe pensare a un titolo rassicurante. Non è così. La guarigione, qui, arriva come arriva il fuoco quando brucia il legno: passando dal dolore. Poggi ha riaperto i suoi archivi, mescolando registrazioni di un tempo con nuovi brani, sostenuto da voci e strumenti di amici che sono diventati famiglia. C’è Davis, ancora una volta. C’è Shar White, le chitarre di Enrico Polverari e Hubert Dorigatti. Il risultato non è un’antologia, ma un diario intimo.Eppure non sono i nomi che contano, bensì il tono. Poggi non ti accompagna, ti scaraventa accanto. Ti dice: “Ecco la crepa, guardala. Il blues è lì”. E dentro quella crepa trovi dolore, luce, resistenza. Perché il blues, per lui, “non è mai stato nostalgia o revival: è una lingua per raccontare il buio senza diventare patetici”.Ed eccolo, dunque: Cavaliere della Repubblica. Un titolo che può sembrare surreale per uno che ha sempre vissuto ai margini, fedele a un genere che non è mai stato di moda. Ma che oggi trova senso proprio in quella fedeltà. Fabrizio Poggi non ha mai suonato per intrattenere. Ha suonato per resistere. Perché nel blues, per lui, “non c’è consolazione, ma sopravvivenza”.E forse è per questo che la sua storia convince. Perché un uomo che continua a suonare come se ogni respiro fosse l’ultimo non ha bisogno di riconoscimenti per risultare credibile. Ma quando arrivano, lui riesce a ridere e a dire che il Cavaliere, in fondo, non è lui. È l’armonica.Ph: Riccardo PiccirilloL'articolo Il nuovo album di Fabrizio Poggi, noto bluesman italiano, non rassicura: la guarigione passa dal dolore proviene da Il Fatto Quotidiano.