Lo Us Open è diventato lo Slam dei litigi e del caos

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AGI - Sarà che giocatrici e giocatori arrivano a New York già stremati dopo otto mesi di tornei. Oppure è soprattutto colpa dell'ambiente. E quello di Flushing Meadows è per volti versi 'tossico', con quel brusio di fondo che accompagna ogni match, sul centrale e non. Ma durante il torneo di quest'anno stanno emergendo con forza, forse più che in passato, le patologie caratteriali e psicologiche con cui molti se non moltissimi giocatori devono fare i conti, causate dalla prolungata e indefessa attività tennistica.L'ultimo caso in ordine di tempo è quello di Jelena Ostapenko, lettone già vincitrice del Roland Garros nel 2017 e poi alle prese con varie vicissitudini. Al termine del match perso contro l'americana Taylor Townsend, Jelena ha puntato letteralmente il dito contro l'avversaria e ha usato parole di fuoco: "Non hai classe né educazione. Ti aspetto fuori dagli Stati Uniti".Come a dire: qui hai potuto fare ciò che volevi perché avevi il pubblico dalla tua parte, altrove sarà un'altra cosa. Apriti cielo: sui social la Ostapenko è stata travolte dalle accuse di razzismo e di malcelato body shaming visto che Townsend è una delle atlete del circuito che più ha dovuto fare i conti con un fisico imponente che le è costato pure, tempo fa, un'esclusione dai programmi di sostegno agli atleti della Federazione americana.Il casus belli? Due li ha spiegati la Ostapenko sui suoi profili social: l'americana non ha iniziato il palleggio da fondo campo, come da prassi, ma si è subito piazzata a rete. E questo onestamente non si fa. Poi ha vinto un punto grazie a una deviazione del nastro e non ha rivolto verso l'avversaria gesti di scusa, anzi: rimproverata in tal senso dalla rivale avrebbe risposto 'non sono obbligata a farlo'. E non si è trattato dell'unico episodio in questi primi giorni di torneo.La sceneggiata di Danil Medvedev passerà alla storia con gli attacchi al giudice di sedia per una palla contestata, poi l'aizzamento del pubblico, il gioco fermo per sei minuti e, dopo la sconfitta, la distruzione della racchetta contro la panchina. Non con un singolo colpo ma sfogando una furia iconoclasta di cui in tempi recenti il solo Kyrgios era stato protagonista. E il colmo è stato che a correre in suo soccorso è stato l'amico e connazionale Andrej Rublev che ha detto: "Se lui ha bisogno di aiuto io ci sono".Affermazione che assume un sapore particolare visto che Rublev è il celebre colpitore dei suoi muscoli con la racchetta dopo un colpo fallito, spesso rischiando di infliggersi lividi e fratture. Un campione della categoria al confronto del dilettante - a riposo, ormai impegnato nei preparativi di "Ballando con le Stelle" - Fabio Fognini. C'e' baruffa nell'aria newyorchese.Aria peraltro che puzza pesantemente di hashish anche nell'area di Flushing Meadows. Fatto che lo stesso Rublev ha stigmatizzato, insieme a Casper Ruud. È come se quest'anno a New York il tennis abbia perduto se non proprio la verginità (ammesso ne abbia mai avuta una), almeno la sua caratteristica di isola. Più o meno felice ma pur sempre isola. Come se il mondo "fuori" avesse deciso di fare irruzione "dentro": un fenomeno a cui gli appassionati di calcio sono tristemente abituati da decenni.In più c'è il discorso che diventa sempre più evidente riguardante lo stress degli atleti, triturati (spesso anche per loro responsabilità) da un calendario pesantissimo e dall'esigenza continua di conquistare punti per non perdere terreno. Un gioco-tritacervelli che produce conseguenze sempre più evidenti: Zverev che dopo Wimbledon ammette di non provare più gioia "in qualunque cosa io faccia" e di non essersi mai sentito "così vuoto".Matteo Berrettini scomparso dai radar (rientrerà nella tournée asiatica, pare) anche per lo sconforto derivante dall'accettazione di un fisico che non regge più ritmi pazzeschi. Emil Rusuvuoori, che era considerato un enfant prodige fino a qualche anno fa, che riferisce apertamente dei suoi attacchi di panico: patologia di cui sono vittima anche altri giocatori.A New York tutto è moltiplicato anche perché è difficile ricavarsi una comfort zone dove elaborare i colpi falliti, le sconfitte e le fatiche. C'è quel caos continuo che è sempre presente e che si fa sentire in ogni dove. C'è poco da stupirsi se poi litigi e sceneggiate sono all'ordine del giorno.