di Gianvito Pipitone – Si, c’è qualcosa nell’aria, e non è solo afa estiva. È un mutamento sottile ma profondo, percepibile nei discorsi pubblici, nei gesti dei leader, nei linguaggi che si fanno più crudi, più diretti, quasi spietati. E come impariamo dalla TV, o meglio dai social, con il loro potere moltiplicatore, non è più tempo di scherzare.Il politicamente corretto, per anni baluardo delle élite progressiste, arranca, colpito da una controffensiva ideologica che non fa prigionieri. I revanscisti di ogni latitudine, da Washington a Varsavia, da Roma a Budapest, sembrano aver fiutato il loro momento: è l’ora della rivalsa di chi si è sentito zittito, ridicolizzato, marginalizzato per troppo tempo. E dunque, come spesso accade nella Storia, il pendolo oscilla ora con violenza in direzione ostinata e contraria.Nato con l’intento di proteggere i diritti delle minoranze, il politicamente corretto ha avuto il merito di portare alla luce discriminazioni sistemiche e di dare voce a chi ne era privo. Le battaglie LGBTQ+, il femminismo intersezionale, l’antirazzismo militante: tutte istanze sacrosante, che hanno contribuito a rendere il mondo un posto più giusto. Ma nel tempo qualcosa si è incrinato. La lotta per l’inclusione si è trasformata in una corsa alla purificazione ideologica. Ogni parola è diventata potenzialmente offensiva, ogni gesto passibile di censura.È giusto cancellare parti di libri, film, opere d’arte in nome dell’inclusività? Una domanda che molti si sono posti, in questi lunghi anni, increduli davanti a tanto funambolico ardire. La risposta non è semplice. Ogni opera è figlia del suo tempo, e la cultura non è un giardino da potare, ma una foresta da esplorare. Rimuovere ciò che è scomodo significa amputare la memoria, privarsi degli strumenti critici per comprendere le radici delle disuguaglianze e dei pregiudizi.La “woke culture” ha invece radicalizzato questo processo: statue abbattute, libri riscritti, film censurati. Il passato, anziché essere compreso, è stato cancellato. E il senso di colpa occidentale ha generato un terzomondismo paternalista, una sorta di autoflagellazione collettiva. Così, il politicamente corretto ha finito per assomigliare a ciò che Popper definiva “società chiusa”: un sistema totalizzante, dove il dissenso viene visto come eresia. Ma ogni eccesso genera il suo contrario. Dovremmo aver imparato la lezione ormai, o no?Oggi, il politicamente corretto non solo ha perso centralità, ma è diventato bersaglio da colpire e sradicare. La temuta reazione è arrivata e, lontano dall’essere sobria, si presenta con ferocia inaudibile. Trump, con il suo linguaggio brutale e antistituzionale, ha aperto le danze. Ma non è solo lui: da Elon Musk a Javier Milei, fino alla destra intransigente di Vannacci (per citare un esempio di casa nostra), passando per certi ambienti della sinistra radicale che flirtano con il putinismo, il nuovo linguaggio del potere è oppositivo, provocatorio, spesso violento. E non si tratta qui solo di dire ciò che prima era indicibile: si tratta di farlo e rivendicarlo con orgoglio, con arroganza, con un disprezzo puntuto per le regole del confronto civile. A gabbie spalancate, quindi: hic sunt leones.Questa nuova postura non è più semplice reazione: è già ideologia. È un manifesto implicito di questa nuova destra, nutrita di rancore, nostalgia, desiderio di rivincita. Oltre che di vendetta (culturale, almeno). E che rischia di diventare, essa stessa, una forma di totalitarismo.Il mese scorso il governo degli Usa ha chiarito che le aziende di intelligenza artificiale che desiderano collaborare con la Casa Bianca dovranno garantire che i loro sistemi siano “oggettivi e liberi da pregiudizi ideologici dall’alto verso il basso”.Tempi cupi per i giganti dell’AI (Chatgpt, Grok, Gemini, Claude, etc.) prosperati sotto l’egida del politicamente corretto, e ora costretti a rimodulare i propri algoritmi per sopravvivere. Tutto ciò dovrebbe farci riflettere: non esiste un’intelligenza artificiale neutra, staccata dalla volontà politica. Ogni tentativo di imparzialità è destinato a fallire, perché ogni sistema algoritmico riflette sempre una visione del mondo.In definitiva. Il politicamente corretto, nel suo tentativo di includere, ha finito paradossalmente per escludere. Ha costruito uno specchio in cui l’uomo doveva contemplare i propri errori, ma ha imposto un riflesso unico, fatto di leggi, norme e cavilli così inevitabili da sembrare dogma. Oggi, mutatis mutandis, il pendolo oscilla nella direzione opposta, verso un linguaggio aggressivo, una retorica del “dire tutto” che rischia di diventare però nuova forma di censura.Il paradosso è evidente: si è passati da una censura per eccesso di sensibilità a una censura per eccesso di brutalità. E in questo gioco di estremi, a perderci è il linguaggio e la sua funzione più alta: quella di costruire ponti, non certo di erigere muri. Di aprire spazie non di chiuderli.Ancora una volta il mondo dovrà fare i conti con le sue forze uguali e contrarie. Sì, perché la vera sfida per il futuro, passa dalla difesa della complessità. Non certo dalla semplificazione moralista o del fanatismo reazionario. E ancora una volta bisognerà accettare che la libertà non è assenza di regole, ma capacità di convivere con il dissenso, con la pluralità, con l’ambiguità del reale.Perché se il pensiero si riduce a slogan da stadio, la cultura si piega alla paura e la politica diventa solo uno strumento di vendetta, allora sì che ci aspettano tempi cupi. E non ci sarà algoritmo che potrà salvarci. Amen.