di Gianvito Pipitone – C’è una spinta profonda, quasi istintiva, che attraversa la sinistra italiana e la porta, ciclicamente, a guardare altrove. Verso altri mondi, altri volti, altre narrazioni. È una tensione genuina, alimentata da aspirazioni nobili, giustizia, uguaglianza, diritti per tutti, e da un idealismo che sembra inscritto nel suo stesso DNA.Ma questo impulso, per quanto nobile, si traduce spesso in una ricerca affannosa di figure esterne, idealizzate e quasi sempre fuori contesto. In questo schema si inserisce Zohran Mamdani, appena eletto sindaco di New York. La sua ascesa ha già scatenato l’effetto bandiera: entusiasmo, identificazione, e una nuova ondata di speranza. Perché, nonostante le delusioni ricorrenti, il popolo della sinistra — più identitario di quello della destra, più evanescente e spesso sotto traccia — non smette di cercare. Restando in attesa di un messia che tarda ad arrivare, ma che ogni tanto si affaccia da lontano, portando parole nuove e visioni radicali.È storia. Dalla Seconda Repubblica in poi, la sinistra italiana ha cercato ispirazione in leader stranieri, trasformandoli in icone da importazione. Il britannico Tony Blair fu il primo grande abbaglio: un impianto neoliberale mascherato da progressismo, adottato con entusiasmo da una sinistra in cerca di legittimazione centrista. Vedi Renzi.Poi venne lo spagnolo Zapatero, corteggiato da Veltroni e Letta. Il suo riformismo sociale e il tono istituzionale lo resero, per un periodo, il volto ideale di una sinistra moderna. Pedro Sánchez ne ha raccolto l’eredità, e oggi viene spesso citato da Elly Schlein come modello di socialismo pragmatico e resistente.Più lontani, geograficamente e culturalmente, i venezuelani Chávez e Maduro: il primo evocato dalla sinistra più estrema come simbolo di resistenza, il secondo, troppo compromesso e rapidamente rimosso dall’Olimpo della sinistra. Per un certo periodo Lula da Silva fu simbolo della riscossa operaia in Brasile. Ma il suo mito si è presto sgonfiato dopo gli scandali giudiziari, nonostante l’assoluzione. Tsipras, invece, il premier greco che aveva incarnato la speranza di una sinistra capace di sfidare l’austerità europea, ha deluso accettando le condizioni della Troika dopo il referendum del 2015. E persino Obama, figura storica e carismatica, ha incrinato la sua immagine con politiche moderate, compromessi con Wall Street e l’intervento in Libia.E così a cadenza ciclica, ogni tanto, arriva un lampo, in alto o in basso a sinistra. La vittoria di Zohran Mamdani a New York è uno di quei momenti. Non solo per le sue origini ugandesi e indiane, o perché è il primo sindaco musulmano della città, ma per ciò che dice e pensa. Il suo programma parla di case accessibili, trasporti gratuiti, giustizia ambientale, tassazione equa. Ma soprattutto, usa parole chiare, senza esitazioni. “Sono giovane, musulmano, socialista. E non mi scuso per nulla di tutto questo”, ha detto nel suo discorso di insediamento, sfidando apertamente Donald Trump. Naturalmente, Mamdani ha solo 34 anni: un’età in cui l’esuberanza può essere forza propulsiva, ma anche rischio di rigidità.Ecco, forse Mamdani non è un modello da esportare. Nessun modello esterno lo è, perché ogni contesto ha le sue radici. Ma è un segnale da ascoltare. Se la sinistra italiana vuole davvero tornare a parlare alle persone, deve ripartire da qui: dai problemi concreti, da come affrontarli, da come risolverli. Non da posture, né da slogan.Guardando a casa nostra, è stato interessante. e persino rincuorante, assistere qualche giorno fa al confronto TV tra Massimo Giannini e Lilli Gruber a Otto e Mezzo, con Silvia Salis ospite in studio. La neo sindaca di Genova ha risposto con misura agli inviti a entrare nel dibattito sulla leadership nazionale. Ha glissato con eleganza, evitando di alimentare supposizioni o ambizioni premature. Si è invece concentrata invece sul programma che ha presentato ai cittadini e sulle soluzioni che propone per affrontare i problemi quotidiani della gente.È questo, in fondo, l’atteggiamento che ci si aspetta da un politico serio: non rincorrere titoli, né sbandierare appartenenze vuote con slogan altrettanto vuoti, ma costruire consenso. Sulla base di programmi chiari, proposte concrete, visioni credibili. Parlare con le persone, convincerle una a una, senza retorica, ma con contenuti.Mi vengono in mente alcune battaglie culturali, Flotilla, Propal, LGBTQ+, solo per citarne alcune, giuste, necessarie, spesso sacrosante. Ma che non dovrebbero oscurare quella che è, storicamente, la vocazione primaria della sinistra: la giustizia sociale, la lotta alle disuguaglianze, la difesa dei più fragili. Perché senza questo radicamento, anche le battaglie più nobili rischiano di perdere presa sulla realtà.Certo, la figura di Silvia Salis, per quanto decisa nei toni, appare moderata rispetto al profilo vulcanico e radicale di Zohran Mamdani. Ma esuberanza e moderazione, spesso, sono solo posture esterne. Quello che conta davvero non è il temperamento, ma la capacità di incidere. I fatti. Specialmente in un momento storico che sta assistendo al progressivo indebolimento delle classi intermedie.La povertà non è più un fenomeno marginale: sta colpendo anche chi, fino a poco tempo fa, apparteneva alla classe media. La distanza tra chi ha molto e chi ha poco si allarga ogni giorno. E questo governo, il governo Meloni e di questa destra molto fumosa e poco pratica, per ora, sta facendo davvero poco per ridurla.Forse, un politico di sinistra, oggi, se davvero ha a cuore i temi della giustizia sociale, dovrebbe tornare a muoversi su quel terreno: quello del dialogo diretto, della prossimità, della concretezza. Non inseguire mode, né rincorrere like sui social. Tornare nelle piazze, nei mercati, nei quartieri. Senza timore del dissenso, delle contraddizioni, del confronto. E magari, chissà, senza bisogno di citare Mamdani ogni tre frasi. Anche perché New York è lontana. Mentre i problemi dei cittadini sono tutti qui. E rimangono irrisolti.