Israele invade la Siria: la nuova frontiera del rischio regionale

Wait 5 sec.

di Giuseppe Gagliano – Le truppe israeliane hanno attraversato di nuovo il confine siriano, installando un checkpoint nella provincia di Quneitra. È un gesto apparentemente minore, ma politicamente esplosivo: una violazione diretta della sovranità di Damasco e dell’accordo di disimpegno del 1974, firmato dopo la guerra del Kippur, che stabiliva una zona cuscinetto sotto controllo ONU. Quell’intesa era rimasta in piedi, pur tra crisi e scontri, per mezzo secolo. Ora, con la caduta del regime di Bashar al-Assad nel dicembre 2024, Israele dichiara “collassato” l’accordo e considera legittimo il proprio controllo temporaneo del Golan. In realtà, di temporaneo non c’è nulla: il posto di blocco a Jabata al-Khashab, due carri armati e quattro veicoli militari, rappresentano la formalizzazione di una presenza permanente che cambia il volto del confine.Il nuovo presidente siriano, Ahmed al-Sharaa, succeduto ad Assad dopo un collasso politico e militare durato anni, tenta di ricostruire la legittimità internazionale di Damasco. I numeri, però, sono impietosi: oltre mille attacchi aerei e quattrocento incursioni terrestri israeliane dall’inizio del 2025, secondo fonti siriane. La Siria, sostenuta da Turchia e da alcuni Stati arabi, ha avviato una campagna diplomatica per riottenere il riconoscimento della propria sovranità sul Golan. Ma le istituzioni internazionali appaiono paralizzate. La Risoluzione 497 del Consiglio di Sicurezza ONU, che nel 1981 dichiarò “nulla e priva di effetti giuridici” la legge israeliana sul Golan, è rimasta lettera morta. Gli Stati Uniti, dal 2019, sono l’unico Paese ad aver riconosciuto ufficialmente l’annessione. E oggi, con Trump tornato alla Casa Bianca, Washington sembra più interessata a usare il dossier siriano come leva negoziale che a difendere il diritto internazionale.Dal punto di vista strategico-militare, l’espansione israeliana oltre la linea del 1974 ha un duplice scopo. Primo: prevenire la riorganizzazione di gruppi filoiraniani nel Sud della Siria. Secondo: consolidare una cintura di sicurezza che protegga lo Stato ebraico da qualsiasi futura instabilità siriana. Ma in questo modo Israele crea un precedente: legittimare un’occupazione permanente con la giustificazione della sicurezza preventiva.La Siria, da parte sua, non ha i mezzi per rispondere militarmente. Il suo esercito è esausto, la ricostruzione è appena cominciata e la presenza turca nel Nord limita la libertà d’azione di Damasco. Di fatto, il Paese resta un mosaico di zone d’influenza: russe, turche, israeliane e statunitensi. Il rischio è che il Sud, come già l’est, si trasformi in una “zona grigia” dove la sovranità è un concetto negoziabile e la sicurezza un affare tra potenze esterne.La questione del Golan non è solo territoriale. Da quell’altopiano passano rotte energetiche, risorse idriche e infrastrutture di comunicazione cruciali. Controllarlo significa avere accesso a una leva economica strategica per la futura Siria e per l’intera regione levantina. Israele, che dal 1981 ha integrato il Golan nella propria economia agricola e turistica, non intende rinunciarvi. E gli Stati Uniti, che nel 2019 ribattezzarono un insediamento “Trump Heights”, confermano la loro benedizione simbolica a questa politica di fatto.Ma ogni passo in quella direzione erode un principio cardine del diritto internazionale: il divieto di acquisizione di territori con la forza. Se oggi la comunità internazionale accetta l’occupazione israeliana come “temporanea”, domani altri Stati potrebbero usare lo stesso modello per giustificare annessioni, confini mobili, occupazioni preventive.Il viaggio imminente del presidente al-Sharaa a Washington, il primo di un capo di Stato siriano in oltre ottant’anni, segna un tentativo di riposizionamento. Trump e il suo inviato speciale Tom Barrack parlano di “nuova fase di dialogo” e di possibile adesione siriana alla coalizione anti-ISIS. Ma il vero obiettivo è un accordo che riduca la pressione israeliana e definisca, sotto supervisione americana, i nuovi equilibri del Sud della Siria. Per Damasco è una scommessa: fermare i raid israeliani in cambio di concessioni politiche e forse economiche. Per Washington è un modo per riportare la Siria nell’orbita occidentale, limitando l’influenza iraniana e russa.Sullo sfondo resta la questione centrale: la fine della sovranità siriana. Dal 2011 il Paese è diventato laboratorio di tutte le guerre contemporanee ovvero civili, per procura, tecnologiche, ideologiche. Israele agisce oggi in un contesto di vuoto politico e legale, spingendosi oltre i confini che la comunità internazionale aveva tracciato. Se l’occupazione del Golan diventa prassi riconosciuta, la Siria post-al-Assad rischia di nascere già mutilata, dipendente dai patti e dagli interessi altrui. In un Medio Oriente in cui le mappe si ridisegnano a colpi di droni e di “zone cuscinetto”, la pace è ormai un linguaggio che non ha più un confine.