Tanzania. I massacri e la democrazia del silenzio che imbarazza l’occidente

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di Giuseppe Gagliano – Ottocento morti in tre giorni. Quartieri assediati, Internet tagliato, obitori svuotati di notte. La Tanzania, che per decenni era stata citata come esempio di stabilità africana, si è risvegliata in un incubo post-elettorale. La rielezione di Samia Suluhu Hassan con un incredibile 98% dei voti ha scatenato una repressione che il governo definisce “ordine pubblico” ma che molti diplomatici, e soprattutto gli abitanti di Dar es Salaam, riconoscono come un’autentica operazione di pulizia politica.Le testimonianze, i video e i rapporti che riescono a filtrare dopo la riattivazione parziale di Internet parlano di un massacro sistematico. Le forze di sicurezza avrebbero aperto il fuoco contro i manifestanti del partito d’opposizione Chadema. Interi quartieri sono stati isolati, le comunicazioni interrotte, gli oppositori arrestati o scomparsi. “Il potere è garantito da una pistola”, ha detto l’avvocato Tito Magoti. Una frase che non è solo denuncia ma diagnosi: la Tanzania vive oggi sotto un regime che teme i suoi cittadini più di ogni altra minaccia esterna.Di fronte a questa tragedia, la comunità internazionale tace. Nessuna condanna netta, nessuna sanzione, solo comunicati formali che invitano alla “moderazione”. Le cancellerie occidentali, solitamente pronte a puntare il dito contro Mosca o Pechino, scelgono la prudenza. Samia Suluhu Hassan è considerata un partner affidabile: ha mantenuto rapporti stabili con gli investitori europei, ha garantito la continuità dei contratti energetici e minerari, e ha consentito alle ONG occidentali di operare senza intralci. In altre parole, è utile. E in geopolitica l’utilità spesso pesa più della libertà.Dietro il silenzio si nasconde l’economia. La Tanzania è uno dei principali esportatori africani di oro e possiede enormi riserve di gas naturale offshore nel bacino di Lindi, che attraggono interessi britannici, francesi e norvegesi. Bloccare i rapporti con Dodoma significherebbe compromettere investimenti miliardari e aprire spazi alla Cina, che negli ultimi anni ha già aumentato la sua presenza con progetti infrastrutturali e accordi di fornitura energetica. È questa la vera ragione del doppio standard: l’Africa può sanguinare purché resti economicamente docile.Quando Julius Nyerere fondò la Tanzania moderna, sognava un socialismo africano fondato sull’uguaglianza e la dignità collettiva. Quel sogno si è dissolto nella violenza di oggi. Il Paese, che fu mediatore nei conflitti regionali e simbolo di coesione, è diventato una nazione frammentata, governata dal timore e dal sospetto. Il tradimento del modello tanzaniano è anche il fallimento di una visione continentale: la democrazia africana, se non sostenuta da una vera indipendenza economica, resta vulnerabile al ricatto dei partner esterni.Il caso tanzaniano dimostra come l’Africa sia ancora terreno di proiezione dei poteri mondiali. Washington e Bruxelles chiudono un occhio davanti alla repressione perché temono di perdere influenza a vantaggio di Pechino o Mosca. Pechino, dal canto suo, non chiede riforme democratiche, ma garanzie commerciali. È il gioco delle potenze che, a suon di prestiti, armi o silenzi, decidono chi può governare e chi no. Il risultato è che i popoli africani, da Niamey a Dar es Salaam, restano prigionieri di una sovranità mutilata.La strage di questi giorni non è solo una tragedia locale: è un test per la credibilità del sistema internazionale. Se ottocento morti non bastano a scuotere la coscienza delle democrazie, allora significa che i valori proclamati valgono solo quando non disturbano gli affari. La Tanzania ci mostra il volto di un mondo che, pur proclamando diritti e libertà, continua a selezionare le sue indignazioni in base alla convenienza.Il silenzio dell’Occidente, come il colpo di fucile nelle strade di Dar es Salaam, è un atto di violenza. Uno uccide i corpi, l’altro le speranze. E insieme condannano un popolo a un futuro di paura e oblio.