“Il dolore mi sta portando per mano verso l’autenticità dell’essere umano, mi sta inchiodando al presente. E se io sono inchiodato al presente, la preoccupazione per le aspettative future e i rimpianti del passato perdono di importanza. È un grande maestro il dolore“. Sono parole che pesano, che arrivano da un luogo profondo di sofferenza e di nuova consapevolezza. Giovanni Allevi, in una lunga e intensa intervista a Sette, il settimanale del Corriere della Sera, torna a parlare della sua battaglia contro il mieloma multiplo, in occasione dell’uscita del documentario “Back to Life“. E lo fa con una lucidità che trasforma lo “strazio” in un paradosso vitale.Allevi non nasconde la durezza del percorso, ma ne ribalta il significato: “È il paradosso della malattia: il dolore che può portarci doni“, spiega. “Il percorso della sofferenza può condurre ad una consapevolezza più profonda dell’importanza di essere vivi”. Racconta dei momenti più difficili, quando la sera, dalla sua camera d’ospedale, guardava le luci delle case di una “Milano apparentemente anonima”. “Eppure, io vi ho percepito un’immensità, un infinito, una bellezza disperata ma piena di calore”. È uno dei doni che la malattia gli ha portato: la compassione. “Rendersi conto del dolore degli altri ci apre a una compassione profonda. La malattia finisce per far cadere le maschere dei nostri desideri. E ci rendiamo conto che il nucleo più profondo dell’essere umano è la fragilità, il dolore. Allora io vedo nell’altro un fratello, una sorella da abbracciare”.Un ospedale è fatto anche di suoni. E ce n’è uno che tutti i pazienti oncologici riconoscono: “Il cicalino elettronico che avverte che è finita l’infusione della flebo“, racconta Allevi. “Quel suono nasce sull’accordo di Re settima“. Questo dettaglio musicale si trasforma in un aneddoto potente. “Qualche mese fa sono stato in visita al reparto di pediatria oncologica dell’ospedale Pausilipon di Napoli. Un’esperienza che nella mia vita passata mi avrebbe fatto paura. Adesso sento di poterci entrare quasi come se fosse casa mia”. In reparto c’era un pianoforte: “Pensavo a un frammento di Back to life, o magari Per Elisa. E invece, inspiegabilmente, la prima melodia che mi è venuta in mente è stata quella del cicalino della flebo. L’ho fatta al pianoforte e tutti si sono messi a ridere. Era un segnale di riconoscimento. Di appartenenza: ehi, sono dei vostri”.Il luogo simbolo della sua esperienza è “l’Accettazione” dell’Istituto dei Tumori di Milano, un luogo che definisce “sacro” perché lì “la caduta dell’ego” è totale. Lì non è un personaggio famoso, ma un essere umano tra altri esseri umani. “Mi nutro di quella autenticità”, confessa, ammettendo di far fatica a seguire il consiglio dei medici di “prendere le distanze dalla malattia”. Il dolore fisico è ancora persistente, ma Allevi ha imparato ad “accoglierlo”: “Il dolore non è il mio nemico, il dolore è un maestro”. Un maestro che lo costringe al presente.E il futuro? A fine dicembre partirà per un tour europeo di pianoforte, nonostante le conseguenze delle terapie: “In questo momento noto che faccio fatica a tenere il cellulare, perché mi trema la mano. Quindi è ancora forte il tremore”. Ma anche qui, il paradosso si fa forza: “Si può suonare con le dita che tremano? Sì. Lo dico con una gioia disperata. Sì, perché queste mani tremanti racconteranno l’essere umano. E proprio perché tremanti saranno in grado di toccare il cuore. E gli ascoltatori si stringeranno attorno al mio pianoforte. Speriamo. Mamma, che meraviglia”.L'articolo “Il suono della flebo che finisce è un accordo di Re settima, è un segnale di appartenenza. Il tremore alle mani è ancora forte, ma voglio suonare anche con le dita che tremano”: Allevi parla della malattia proviene da Il Fatto Quotidiano.