di Giuseppe Gagliano – Gli ultimi raid israeliani nei pressi di Damasco non rappresentano soltanto un episodio di guerra a bassa intensità, ma un segnale di come Tel Aviv stia ridefinendo i propri margini di sicurezza. Dopo l’uccisione di sei soldati siriani in un attacco con droni, Israele ha lanciato operazioni mirate, comprese azioni di sbarco con elicotteri e incursioni terrestri. L’obiettivo non è solo militare: è politico, strategico e volto a consolidare un controllo diretto sul territorio siriano, in particolare attorno a Kiswa e nelle aree del Golan.Dal dicembre 2024, con la caduta del regime di Bashar al-Assad, Israele ha intensificato la propria presenza in Siria. Gli attacchi contro postazioni militari e il rafforzamento dell’occupazione del Golan dimostrano un cambio di passo. Non più soltanto operazioni preventive contro basi iraniane o depositi di Hezbollah, ma un vero e proprio tentativo di ridisegnare i confini. L’uso combinato di droni, aviazione ed elicotteri conferma la superiorità tecnologica di Israele e la sua volontà di mantenere la Siria in uno stato di frammentazione permanente, evitando la ricostituzione di un esercito nazionale capace di minacciare i propri confini.Le accuse di Damasco, cioè violazione della sovranità e piani espansionistici, trovano eco in un contesto più ampio: la progressiva balcanizzazione della Siria. Israele non si limita a colpire obiettivi militari, ma interviene nei delicati equilibri etnici e religiosi. La comunità drusa, in particolare nella provincia di Suweyda, diventa terreno di manovra. Tel Aviv si presenta come protettrice del popolo druso, dopo i sanguinosi scontri settari di luglio, e favorisce indirettamente l’emergere di movimenti autonomisti guidati dal leader spirituale Hikmat al-Hijri. La sua proposta di una regione drusa autonoma ricalca il modello curdo, con forze armate locali e un’amministrazione separata. Una Siria divisa in cantoni etnici è la condizione ideale per un Israele che punta a impedire il ritorno di uno Stato unitario ostile.Sul piano economico, l’espansione israeliana ha un duplice significato. Primo: il controllo di aree strategiche come il monte Hermon, vicino al confine con il Libano, consente un presidio delle risorse idriche, tema cruciale per la sicurezza israeliana. Secondo: la destabilizzazione siriana ostacola la ricostruzione economica e scoraggia eventuali investitori internazionali, mantenendo il Paese in una condizione di dipendenza e vulnerabilità. Parallelamente, Israele rafforza la propria posizione come hub tecnologico e militare nella regione, attirando capitali occidentali e consolidando la propria economia di guerra.Gli attacchi israeliani non si consumano nel vuoto. Essi si intrecciano con la partita libanese, con Hezbollah sotto pressione, e con gli interessi di potenze come Iran e Russia, che vedono ridursi il loro margine di influenza in Siria. Inoltre, la scelta israeliana di spingersi oltre il Golan e di favorire i movimenti separatisti drusi manda un messaggio chiaro agli Stati arabi: ogni vuoto di potere in Siria sarà colmato da Tel Aviv, anche a costo di violare accordi storici come quello del 1974. Una logica che, sebbene condannata formalmente da Damasco, trova terreno fertile in un Medio Oriente frammentato, dove gli Stati cercano di sopravvivere più che di esercitare piena sovranità.Le operazioni israeliane in Siria rivelano una strategia più ampia: frammentare il Paese per renderlo incapace di resistere a una futura normalizzazione dei rapporti con Israele. La questione drusa, le incursioni militari e la conquista di aree strategiche rispondono tutte a un disegno coerente. La Siria, privata di unità politica, diventa terreno di sperimentazione per nuove entità autonome, ridotta a mosaico instabile e funzionale agli interessi di Tel Aviv. In questo scenario, il prezzo più alto sarà pagato dal popolo siriano, stretto tra le ambizioni israeliane, le rivalità interne e l’indifferenza di una comunità internazionale che, pur condannando a parole, sembra accettare la logica della spartizione.