A due anni dalla sigla del protocollo Meloni-Rama che ha portato alla creazione di due centri in Albania per accelerare la procedura di rimpatrio dei migranti, un centinaio di attivisti da tutta Europa si sono dati appuntamento nel fine settimana a Tirana per protestare contro il cosiddetto “modello Albania”. L’iniziativa è stata organizzata dal Network Against Migrant Detention, una realtà nata due anni fa su iniziativa italiana e che ha coinvolto nel corso dei mesi diverse associazioni internazionali, europee e non solo. “La recente visita dei deputati italiani ha messo in luce il fatto che le persone che arrivano in queste strutture vengono prelevate dai cpr italiani e portati in Albania – spiega Maddalena Scotti, una delle organizzatrici – Si tratta di un modello di gestione dei flussi migratori che viola le norme costituzionali e che non facilita la procedura per chi entra nel nostro Paese”.Al centro della contestazione ci sono le strutture di Shëngjin e Gjadër – che secondo le stime dovrebbero costare tra i 650 e i 680 milioni di euro nell’arco dei 5 anni 2024-2028 – che hanno ospitato globalmente solo 200 persone delle migliaia inizialmente ipotizzate. “Al momento si contano 25 persone nel centro di Gjadër, a dimostrazione che il sistema non sta funzionando. Nonostante questo, i centri rimangono attivi, con numerose forze dell’ordine italiane a presidiarle e un conseguente dispendio economico per i contribuenti italiani – prosegue Scotti – Vogliamo continuare a costruire reti e mobilitazioni per opporci a questo sistema, ma il nostro obiettivo è anche monitorare quello che accadrà nei prossimi mesi a seguito delle nuove politiche migratorie adottate a livello europeo, che mirano a prendere a modello il concetto di remigration di cui il nostro governo si sta facendo promotore. Si rischia di andare verso una deriva sempre più autoritaria nei confronti dei migranti e per noi l’unica soluzione possibile è lo smantellamento di questo modello”.Il collettivo ha coinvolto anche una ong albanese locale, Hana, che ha sottolineato i tanti punti dell’accordo con l’Italia lasciati in ombra. “Abbiamo saputo della costruzione dei campi sul nostro territorio attraverso la stampa estera. Le nostre amministrazioni non ci hanno fornito alcun tipo di informazione. Sapevamo già che quella albanese è una democrazia solo sulla carta, ma essere tenuti all’oscuro su un fatto così importante ci ha lasciati con un profondo senso di delusione” ha detto Besmira Lekaj, di Hana “Lì le persone sono costrette all’isolamento, allontanate da ogni possibile contatto umano in un Paese in cui non parlano nemmeno la lingua. Non c’è stato il minimo interesse a livello locale per le loro condizioni, è come se tenendoli nascosti dagli occhi avessero perso anche di rilevanza per le coscienze. La debole opposizione locale verso questo sistema coloniale è stata messa a tacere con la scusa che i campi avrebbero anche portato sviluppo economico, attraverso l’assunzione di albanesi che sarebbero stati coinvolti nella gestione delle strutture”. Speranza che però, secondo i locali, non sembrerebbe essersi realizzata.La strada che dalla municipalità di Lezhe conduce al centro di detenzione amministrativo di Gjadër è una via che si snoda tra pareti rocciose in mezzo al nulla. La struttura si staglia come uno sterile complesso di metallo e plastica, dalle alte pareti esterne risulta impossibile scorgere qualsiasi cosa avvenga all’interno. L’impressione è che l’architettura sia un esercizio ben riuscito di rimozione sia fisica che psicologica, con le sue barriere pensate più per impedire ogni interazione o contatto dall’esterno che per confinare le persone al suo interno. Nei grigi e anonimi container che si susseguono lungo il suo vasto perimetro, tuttavia, nel corso degli ultimi mesi sono stati registrati gravi casi di autolesionismo, episodi su cui il flashmob di sabato ha messo più volte l’accento. “I casi di autolesionismo, avvenuti qui come in tutti gli altri cpr, sono la dimostrazione di quanto questi luoghi siano patogeni: le persone vi entrano innocenti e sane e una volta all’interno sviluppano patologie mentali per via delle inumane condizioni di detenzione – ha detto Marcello Dall’Osso, di +Europa e Radicali Roma- Spesso, se non sempre, non sanno neanche dove si trovano o il motivo per cui siano stati rinchiusi e, in questo caso, deportati. L’Europa che vogliamo è l’Europa dell’integrazione e dei diritti umani non quella che contraddice i propri stessi valori fondativi.”Alla protesta era presente anche Mediterranea, con Simone Riva, che ha detto a ilfattoquotidiano.it: “Essere di fronte a queste realtà mi sconvolge perché mi mette di fronte all’evidenza della detenzione amministrativa e dei lager che ne rappresentano i confini fisici. Questa immagine è totalmente contrastante rispetto alla prospettiva che ci è restituita dall’opinione pubblica e dai media, dove il concetto di cpr appare come qualcosa di marginale se non addirittura inesistente”. In questo momento la Commissione Ue sta lavorando alla cosiddetta return regulation che stabilisce una base legale per, potenzialmente, riprodurre il modello Albania a livello europeo. Il mese di giugno 2026 è la deadline per l’implementazione del nuovo patto sull’Asilo e la migrazione che punta l’esternalizzazione della migrazione in Paesi terzi.L'articolo In Albania la protesta contro i centri per migranti di Meloni: “Questo sistema non funziona, vanno smantellati” proviene da Il Fatto Quotidiano.