Sì, lo so, gli articoli di metagiornalismo dovrebbero essere vietati. Succede però che escono due editoriali – Calenda su questo giornale, Galli della Loggia sul Corriere – che parlano di due cose diverse ma parlano della stessa cosa e la stessa cosa è: il peso della “sinistra culturale” in Italia. Ma come, ancora con la sinistra culturale nell’epoca dell’egemonia della destra? Sì. Calenda parte dalla sua litigata televisiva con Jeffrey Sachs e traccia l’ennesimo “ritratto impietoso” della situazione pagliaccesca e canagliesca dei nostri talk: un sistema di fregnacce in libertà dove spadroneggiano fascinazione putiniana, fanatismo antioccidentale, esaltazione del pensiero illiberale orchestrato dai vari Orsini, Cacciari, Caracciolo, Di Cesare, ognuno con le sue ragioni e tornaconto personale – mentre i vari Formigli gongolano con “la difesa della libertà di pensiero” (salvo poi epurare Calenda da “Piazzapulita” per pulirla ancora di più). Va benissimo, per carità. E’ lecito scegliere la posizione antioccidentale e putinista: il problema, come ricorda Calenda, è che da noi manca l’altra parte. Gli antioccidentali hanno il bazooka, gli sparuti liberali rispondono a colpi di fioretto. E il pianeta talk diventa un concerto grosso che ha un debole per le tirannie quando hanno come nemico l’occidente. GdL racconta invece il persistente “richiamo della foresta” dell’elettorato di sinistra, sempre attratto dalla sua anima antagonista, minoritaria, perdente (perdente nella Storia, perdente nelle elezioni). Una sinistra ostaggio di quella parte radicalizzata ritornata sulle barricate con la vittoria di Meloni, eccitata dalla Russia che rifà l’Urss o dalla “resistenza di Hamas”. Gente cui – dice Gdl – “non interessa la costruzione di un asilo o un aumento delle pensioni: interessa sentirsi dalla parte giusta della Storia”. Sono gli orfani dell’antioccidentalismo del vecchio Pci che oggi saltano tra M5s, Avs, sigle sempre più esotiche e assembleari (Potere al Popolo, Toscana Rossa). La sinistra italiana – che a quarant’anni dalla caduta del Muro non è riuscita a diventare liberale, riformista, occidentale – si porta dietro il suo super-ego massimalista come una zavorra romantica. Ma ecco il punto: Calenda parlando dei talk e Galli della Loggia degli elettori di sinistra dicono la stessa cosa senza dirla. L’elefante nella stanza del dibattito è la cara vecchia “egemonia culturale” che a un certo punto abbiamo tutti deciso essere scomparsa. Così – puff! – all’improvviso. Anzi: mai vista! Ma un’egemonia non sparisce così, come quando a scuola studiavamo il Rinascimento, il Barocco, due paginette di manuale e via. Le agonie degli imperi in decadenza possono durare secoli. In Italia poi non ne parliamo. E qui inizia il dramma. Perché se evochi la persistenza fuori-tempo-massimo della cultura comunista, la liricizzazione tutta italiana della falce&martello, insomma le ombre e gli effetti della vecchia egemonia culturale che ci fu (eccome se ci fu) e che un po’ c’è ancora – all’università, per esempio – vieni ridicolizzato. Ancora coi comunisti? Ma non vedi che siamo assediati dal fascismo, non lo vedi che c’è l’egemonia della destra? Il trucco è il solito. Per esempio, se spunta fuori una chat di femministe radicali che sparano stronzate sui giornali diventa una “chat fascista”. Se i collettivi di Ca’ Foscari sventolano un lenzuolo con falce & martello diventano dei “fascisti”, come se disonorassero quell’immacolato simbolo di libertà e democrazia che tanto bene ha fatto al mondo. Ma quella vecchia, innominabile presunta egemonia potrebbe invece – per azzardo – c’entrare qualcosa col fatto che nei nostri talk il liberalismo è una posizione esotica, che nelle università parlare di mercato ti rende sospetto, che disprezzare Hamas suona come una “provocazione”. Un bel pezzo della miscela esplosiva tipicamente italiana – quel concentrato di radicalismo, massimalismo, illiberalismo, antioccidentalismo – viene proprio da lì. Dall’aver rimosso il peso di quell’eredità. Da un esame di coscienza che ci doveva essere e non c’è mai stato, non si può fare, non si vuole fare. Magari il problema fosse la “strutturale e etica debolezza nel sistema dei media italiani”, e basta, come dice Calenda. Saremmo più ottimisti.