“Noi, cristiani palestinesi, assediati da militari israeliani che entrano nelle nostre case e arrestano chi vogliono. Spesso dormiamo in chiesa”

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Quando Lina Giacaman è nata, poco più di vent’anni fa, i cristiani erano il 20% della popolazione a Betlemme. Ora sono meno dell’1%, cioè 6mila persone, molte già pronte a partire verso l’Europa, gli Stati Uniti o nei Paesi confinanti. “Almeno cinquanta famiglie sono partite dal 7 ottobre 2023, quando la guerra ha avuto inizio; in tanti vogliono andar via e la Chiesa prova a trattenerli, offrendo lavoro e altre forme d’aiuto, per evitare che la minoranza cristiana scompaia”, commenta Lina a Ilfattoquotidiano.it. E osserva, con dolore: “Se ce ne andiamo anche noi giovani è finita: nel giro di poco terreni e luoghi sacri verrebbero spartiti, i muri si moltiplicherebbero e la comunità cristiana, con le sue tradizioni, finirebbe nell’oblio”. Lina però non si arrende. Ha deciso di restare e di resistere attraverso la sua permanenza. E con lei diversi coetanei, che frequentano la parrocchia di Betlemme e ispirano la loro spiritualità a san Francesco d’Assisi, per non cedere alla “catena di violenza che da anni lacera la Terra Santa” né arrendersi “alle intimidazioni di chi vorrebbe vederli andar via”.Eppure sanno che la vita è più tranquilla altrove. Se ne accorgono girando per le strade di Bologna, Firenze, Roma e altre città raggiunte in pellegrinaggio per il Giubileo: nessun checkpoint, né restrizioni ai passanti, né risvegli violenti nel cuore della notte, con eserciti che irrompono nei quartieri e nelle case. Fra poco dovranno tornare a casa e sperano “che non ci siano problemi, all’ingresso, con le autorità israeliane”, dice Lina, che ricorda: “Se fossimo partiti un giorno prima, avremmo trovato chiuso il checkpoint“, osserva, ricordando che, “all’inizio, il viaggio era programmato per metà luglio” ma con l’acuirsi delle tensioni i permessi “sono stati sospesi” e il viaggio riprogrammato.Tra i pellegrini c’è anche Antone Shomali, che sottolinea come a Betlemme si viva con la “paura di veder cadere un razzo” anche sulla città. “Spesso non sai se torni a casa o meno”, confessa Anton mentre racconta gli abusi di potere perpetrati dai soldati israeliani che “pattugliano le strade”, “entrano nelle case” e “prelevano i giovani”, portandoli nelle prigioni israeliane. “Le operazioni nei quartieri avvengono d’improvviso, alle tre o quattro del mattino, senza motivazione, rubando la pace e il sonno a intere famiglie”, spiega Anton. “L’esercito israeliano sa che i palestinesi sono disarmati, che al massimo provano a difendersi con dei sassi“.Dopo che il palestinese di turno è stato portato via le loro case vengono distrutte oppure occupate. E non c’è tribunale né autorità imparziale che accolga il loro grido di dolore. “Spesso ci capita di dover dormire in chiesa, dopo gli incontri di preghiera, perché le strade sono prese dai militari, che girano, incutono paura alla popolazione e arrestano chi vogliono”, ha spiegato Anton, per il quale la violenza “non è una strada percorribile”, ma la Chiesa è chiamata a “fare da ponte tra i nemici, perché di muri ce ne sono già troppi”. Anton ammette quanto sia “difficile non covare sentimenti di rabbia nei confronti del genocidio a Gaza o della violenza sistematica in Cisgiordania“, ma crede nella nonviolenza e si rifiuta di vedere “l’altro come nemico”, altrimenti “la catena d’odio non finisce più”.È d’accordo Rowina Salameh, che trova nelle sue radici la ragione per non andar via. “È qui dove i nostri genitori sono nati è cresciuti e dove nacque Gesù“, ha osservato Rowina, sottolineando che “i problemi, anche se peggiorati, non sono iniziati il 7 ottobre di due anni fa”, ma i territori palestinesi “sono sempre stati soggetti a violenza, disuguaglianze e ingiustizie”. Basti pensare alle migliaia di persone che dovevano spostarsi da Betlemme per lavorare in Israele, “dove guadagnavano 6mila sheqel (circa 1.400 euro)” – il doppio rispetto a quello che avrebbero guadagnato vicino a casa per lo stesso lavoro – e che ora, “a causa della guerra, non hanno più il permesso di lavorare” in territorio israeliano. Alcune stime rilevano un declino di oltre il 20% del Pil in Cisgiordania dopo lo scoppio della guerra a Gaza. “La Custodia di Terra Santa cerca di offrire sostegno a tutti”, spiega la giovane, per la quale la Chiesa è diventata “un rifugio, per quanto possa fare”, allo strapotere di Tel Aviv, che “concede e revoca permessi, scandisce i ritmi di vita e le giornate dei palestinesi.Quanto alla libertà di movimento: “Se dobbiamo andare a Gerusalemme, al Santo Sepolcro, bisogna ottenere il permesso israeliano”. Ma non basta. “È proprio nella Città santa dove subiamo aggressioni a sfondo religioso”, con episodi puntuali di “giovani che fermano i cristiani, insultano e sputano sul Crocefisso”, lamentano i pellegrini, che però tornano indietro “consapevoli di non essere soli”, perché “l’abbraccio dell’Italia ci ha fatto sentire supportati”. Sono i giorni dello sdegno per la flotilla fermata a pochi chilometri da Gaza, con Chiese e piazze, in modo diverso, aprono loro le porte e li fanno sentire a casa.L'articolo “Noi, cristiani palestinesi, assediati da militari israeliani che entrano nelle nostre case e arrestano chi vogliono. Spesso dormiamo in chiesa” proviene da Il Fatto Quotidiano.