In libreria dal 19 novembre, Lo Zen e l’arte del Cocktail Martini di Fabio Nascimbeni (prefazione di Javier De Las Muelas, fondatore del Dry Martini Bar di Barcellona), per il marchio Wingsbert House, promette di allietare il lettore più colto, il “Martini addicted” e al contempo il neofita o, ancora, chi si sta accingendo a sperimentare le pratiche orientali più in voga o ad aprire il volume uno dell’ultima raccolta filosofica zen in edicola.Chi avrà fra le mani questo libro scoprirà che preparare e bere l’iconico cocktail (se pensate a un drink inevitabilmente il vostro pensiero andrà al bicchiere conico che è, appunto, quello previsto dal disciplinare del Cocktail Martini) non è che una pratica, semplice e quasi senza parole, attraverso cui imparare a vivere in modo zen il tempo che ci viene concesso. Ma non solo, scoprirà che intorno a questa semplicissima e raffinatissima miscela vi sono improbabili estimatori nelle innumerevoli varianti e che chiedere e ottenere “il solito” è faccenda assai strutturata.Pubblichiamo, per concessione dell’editore, un estratto del volume:Al primo sorso succedono due cose: scopriamo il gusto di quel particolare Martini, che è per definizione unico, e ne gustiamo la freddezza, la forza, le botaniche.Il secondo sorso è il momento in cui ci concentriamo sul godimento, e già anticipiamo un senso di mono no aware, pregustando la nostalgia che arriverà, certamente, qualche momento dopo. È la sensazione che deve aver provato il signor Quarterly del romanzo Tenera è la notte di F. Scott Fitzgerald quando, dopo un paio di Martini e già pregustandone un terzo, si rese conto di come l’alcool rendeva i bei momenti del passato contemporanei al presente, come se stessero ancora avvenendo, e contemporanei perfino al futuro, come se stessero per avvenire di nuovo. Il terzo sorso è la fine, ma è anche il momento in cui decidiamo, dipendendo dalla qualità del drink e dai nostri piani per la serata, se berne un altro, e come debba essere il prossimo: un po’ più secco, magari preparato con un nuovo gin che ancora non abbiamo provato, eccetera. E se state pensando che due Martini siano troppi, sappiate che Umberto Eco sosteneva che tre Martini sono il minimo di cui un gentiluomo, o una gentildonna aggiungo io, ha bisogno per superare lo spazio drammatico tra una giornata densa di attività e una serata che si annuncia altrettanto intensa.Il Cocktail Martini è così effimero che muta mentre lo stiamo bevendo, seguendo l’adagio universale del panta rei, tutto scorre, che trova d’accordo Eraclito e Buddha. Tornando ai nostri tre sorsi, il primo sarà certamente più freddo, quasi tagliente, non solo perché il drink non ha cominciato a riscaldarsi ma perché la nostra bocca in quel momento è a temperatura ambiente. Il secondo sorso, oltre a essere probabilmente qualche grado più caldo (maledette leggi della fisica) sarà più bilanciato, perché gin e vermouth avranno avuto tempo per miscelarsi, mentre il terzo sorso sarà sicuramente troppo poco ghiacciato e avrà un gusto ancora diverso, con le spezie del vermouth che emergono timidamente: a quel punto potremmo essere già brilli o avere solo cominciato, tutto dipende, come direbbe un maestro zen. È il concetto giapponese di joha-kyū che significa introduzione, pausa, accelerazione. Secondo questa nozione, centrale nella cerimonia del tè così come nel teatro tradizionale giapponese, tutte le azioni, anche il sorseggiare un Martini, dovrebbero iniziare lentamente, lasciando spazio alla curiosità e alla scoperta, accelerare, senza paura di vivere a fondo l’esperienza, per poi finire rapidamente, lasciando appena lo spazio per la gratitudine per quello che abbiamo appena vissuto. Ancora una volta un concetto zen descrive l’approccio ideale verso il Cocktail Martini: un primo sorso lento e curioso, un secondo pieno ed esuberante, e un ultimo veloce e spinto all’immediato futuro, la mente scalpitante se stiamo per ordinarne un altro, appagata se quel Martini sarà stato l’ultimo della serata.Una cosa che mi ha sempre fatto pensare è come alcuni dei martiniani più famosi della storia, nonostante fossero persone tutt’altro che effimere, dedicassero tempo e attenzione a una cosa tanto fugace come il Martini. Franklin Delano Roosevelt, per quattro volte presidente degli Stati Uniti ed eroe assoluto per i bevitori a stelle e strisce in quanto pose fine al proibizionismo, prendeva per esempio il suo Martini molto seriamente. Si narra che portasse il proprio Martini kit ovunque andasse e che insistesse per preparare lui stesso i Martini per tutti, aggiungendo a gin e vermouth un po’ di salamoia di olive (rendendolo un Dirty Martini, come vedremo), con risultati non sempre eccellenti, ma poco importa con cotal personaggio. Ora, immaginiamo Roosevelt che, alla fine di una giornata impegnativa, invita il suo staff nello Studio Ovale per quella che chiamava la Childern’s Hour, si tira su le maniche e si dedica a una cosa effimera come preparare Martini, usando il suo bellissimo shaker d’argento, a tutt’oggi visibile nel museo a lui dedicato a Washington, sperimentando accostamenti inusuali, mescolando vermouth con liquori o succhi di frutta di ogni sorta, e spesso aggiungendo un paio di gocce di anisetta, per insaporire. Pare accertato che alla Conferenza di pace di Teheran nel 1943, all’apice della Seconda guerra mondiale, Roosevelt abbia preparato un Martini addirittura per Stalin, sottolineando l’importanza della scorzetta di limone per la buona riuscita del cocktail. Stalin trovò il drink freddo nello stomaco ma piacevole, e il giorno dopo regalò a Roosevelt un albero di limoni della sua natìa Georgia con oltre duecento limoni, affinché scorzetta non mancasse.Un altro martiniano che ha vissuto una vita non proprio effimera è Sir Winston Churchill. Colui che ha in un certo modo vinto la Seconda guerra mondiale e che è rimasto nella memoria collettiva come un infaticabile politico e scrittore, vincitore tra l’altro del Premio Nobel per la Letteratura nel 1953, era, che ci crediate oppure no, un alcolizzato. Pare restasse a letto fino a ora di pranzo a leggere i giornali, sorseggiando Scotch allungato, sostenendo che quello era l’unico modo in cui riusciva a tollerare l’acqua, che gli era sempre risultata indigesta. Tra i molti aneddoti alcolici su Churchill, il mio preferito riguarda Lady Astor, la prima donna a sedere nel Parlamento britannico, che nel 1946 gli disse: «Lei è ubriaco, Winston!» per sentirsi rispondere: «E lei è brutta, Lady Astor, ma io domattina mi sveglierò sobrio». Al che la viscontessa, su tutte le furie, rincarò la dose: «Se lei fosse mio marito, le metterei il veleno nel caffè!» per sentirsi dire «Nancy, se lei fosse mia moglie, io quel caffè lo berrei». A onore del vero, anche se per qualche ragione la fama di Churchill come martiniano è salda nell’immaginario collettivo, una recente ricerca ha dimostrato come non amasse particolarmente il gin, tanto da aver versato un Martini preparato da Roosevelt in una fioriera della Casa Bianca. In ogni caso, Churchill ha vissuto novantun anni.Momenti effimeri legati al Cocktail Martini pare averne passati molti anche Ernest Hemingway, maschio alfa per eccellenza, amante della caccia grossa e reporter di guerra, non certo un tipo frivolo. Anche se pare che molte delle storie su Hemingway siano state da lui stesso gonfiate, sono tutte molto godibili e spesso hanno a che fare con il Martini. La mia preferita avviene nell’agosto del Quarantaquattro a Parigi, quando l’esercito americano sta liberando la città e Hemingway lavora come corrispondente dal fronte. Il nostro, che collabora alle attività di intelligence delle truppe americane, riesce a convincere il generale Leclerc a dargli il comando di una squadriglia di cinquanta soldati per liberare il suo bar preferito. Si dirige quindi, apparentemente su una Jeep con tanto di mitragliatore, al bar dell’Hotel Ritz, dove lo aveva introdotto nientemeno che Francis Scott Fitzgerald e dove hanno passato memorabili serate, tra gli altri, Marcel Proust e J. D. Salinger. Entra nel bar, immaginiamo abbastanza trafelato, nota che i nazisti sono già scappati, si siede al bancone e fa l’unica cosa sensata in quel momento: ordina garbatamente cinquantun Martini, uno per sé e uno per ogni membro della truppa. A Hemingway si deve, tra l’altro, la conosciutissima ricetta del Montgomery Martini, ordinato per la prima volta dal protagonista del romanzo Di là dal fiume e tra gli alberi all’Harry’s Bar di Venezia: un Martini secchissimo con quindici parti di gin e solo una di vermouth, dedicato con un certo disonore al Generale Montgomery che apparentemente non lanciava un attacco a meno che le sue truppe non fossero almeno quindici volte superiori di numero rispetto a quelle nemiche.L'articolo Bere un Martini come pratica zen: il cocktail diventa filosofia nel nuovo libro che unisce meditazione e miscelazione proviene da Il Fatto Quotidiano.