Nel dibattito sulla trasformazione digitale della pubblica amministrazione, l’intelligenza artificiale sembra essere diventata la nuova parola magica. Se ne parla come della soluzione capace di rendere lo Stato più efficiente, di ridurre tempi e costi, di migliorare la qualità dei servizi e di restituire al cittadino un rapporto più semplice e trasparente con le istituzioni. Tuttavia, dietro l’entusiasmo crescente, si nasconde un rischio concreto: quello di trasformare l’IA nell’ennesima moda tecnologica, un’etichetta di modernità che non affronta i problemi strutturali della burocrazia ma li maschera, alimentando illusioni più che cambiamenti reali.Nel mio precedente contributo su questo blog ho descritto il paradosso di una pubblica amministrazione che si proclama digitale ma continua a operare secondo logiche, tempi e procedure tipiche dell’era cartacea. L’introduzione dell’IA rischia di riprodurre lo stesso schema: si annuncia una rivoluzione tecnologica, ma si dimentica che la tecnologia, da sola, non basta a cambiare i comportamenti, le responsabilità e la cultura organizzativa di un sistema pubblico ancora profondamente ancorato a modelli del passato. Lo si è visto, in modo emblematico, anche in settori complessi come la sanità digitale, dove strumenti avanzati convivono con pratiche ancora frammentate e dove l’innovazione tecnologica procede più veloce della capacità istituzionale di tradurla in valore pubblico.L’IA, in molte amministrazioni, viene presentata come un rimedio universale. In realtà, senza una strategia coerente, rischia di diventare un contenitore vuoto: si progettano sistemi di automazione senza ripensare i processi, si realizzano piattaforme “intelligenti” che finiscono per replicare inefficienze analogiche in formato digitale, si parla di “algoritmi al servizio del cittadino” senza domandarsi chi li governa, chi li valuta, chi ne garantisce la trasparenza. È la logica dell’annuncio che prevale sulla logica del risultato: conta più dire “abbiamo l’intelligenza artificiale” che dimostrare di saperla usare in modo utile, etico ed efficace.Questo accade perché, troppo spesso, le innovazioni nella PA sono introdotte per pressione politica o comunicativa, più che per reale maturità organizzativa. L’IA diventa così una risposta “di immagine” a problemi che sono invece di sistema: processi ridondanti, carenza di competenze, governance frammentata, scarsa accountability. In assenza di infrastrutture solide e di personale formato, l’intelligenza artificiale non può che restare un esercizio di stile, un “nuovo vestito digitale” cucito su un corpo amministrativo che non ha ancora imparato a muoversi in modo agile e coordinato.Per evitare questo scenario, è necessario un cambio di prospettiva. Prima di introdurre l’IA, bisogna semplificare e razionalizzare i procedimenti; prima di automatizzare, è indispensabile capire cosa davvero merita di essere automatizzato; prima di delegare decisioni agli algoritmi, occorre garantire trasparenza, controllo umano e responsabilità pubblica. L’IA deve essere un mezzo, non un fine. È uno strumento di supporto all’intelligenza collettiva, non un surrogato della decisione amministrativa. E per esserlo davvero, va accompagnata da governance chiara, da un monitoraggio costante, da una formazione diffusa e da una valutazione d’impatto che misuri non solo l’efficienza, ma anche l’equità e la tutela dei diritti digitali.Ma non basterà un adeguamento normativo. Serve una visione costituzionale della governance dell’intelligenza artificiale: una cultura del limite e della spiegabilità, in cui l’essere umano resti nel processo decisionale non per obbligo, ma per diritto. Dove l’errore resti possibile, perché solo l’errore ricorda che la responsabilità appartiene ancora all’uomo. L’AI Act rappresenta un passo importante, ma il suo futuro dipenderà dalla capacità di concepire la regolazione dell’intelligenza artificiale non come un esercizio tecnico, ma come una nuova stagione del costituzionalismo, in cui il potere tecnologico venga misurato sul metro della responsabilità pubblica.La vera sfida, oggi, non è avere l’intelligenza artificiale nella PA, ma costruire una PA capace di usarla con intelligenza. Solo una pubblica amministrazione che investe in competenze, governance e visione potrà evitare che questa straordinaria opportunità si trasformi nell’ennesimo slogan destinato a svanire con il prossimo cambio di stagione.L'articolo Attenzione all’Ai nella pubblica amministrazione: si rischia di non affrontare i problemi strutturali proviene da Il Fatto Quotidiano.