“Ho lasciato lì mia figlia col cancro”. I racconti delle persone sfollate da Gaza City

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Il 1° ottobre il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha pubblicato su X il seguente testo:“Questa è l’ultima opportunità per gli abitanti di Gaza [City] che vogliono farlo di andare a sud e di lasciare i terroristi di Hamas da soli a Gaza [City] a vedersela con le azioni delle Forze di difesa israeliane, che proseguono a pieno ritmo. Chi rimarrà a Gaza [City] sarà un terrorista e un sostenitore del terrorismo”.Il livello d’impunità garantito negli ultimi due anni ai leader israeliani è arrivato al punto che il ministro della Difesa ha potuto diffondere una dichiarazione che annulla uno dei principi fondamentali del diritto internazionale umanitario: l’obbligo di distinguere sempre tra obiettivi civili e obiettivi militari. Minacciare in questo modo centinaia di migliaia di persone rimaste a Gaza City ha significato dare via libera a crimini di guerra quali gli attacchi contro i civili e le punizioni collettive.L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari ha riferito di 400.000 movimenti da nord a sud, dalla metà di agosto, soprattutto in direzione di Deir al-Balah e Khan Younis. Il numero potrebbe essere raddoppiato a partire dal 5 settembre, quando l’esercito israeliano ha annunciato e avviato una campagna di bombardamenti di edifici multipiano, seguita il 9 settembre dall’ordine di evacuazione di tutta la popolazione della città.Quei dati enormi ci dicono che comunque tante persone sono restate intrappolate a Gaza City, impossibilitate a lasciarla a causa dei proibitivi costi del viaggio o di una sistemazione “adeguata” (gli approfittatori chiedono fino a 1000 dollari per una tenda). Le piccole aree indicate da Israele per le evacuazioni sono già sovraffollate e inadatte a essere abitate. Per le persone con disabilità, quelle anziane e quelle da tempo rimaste isolate dalle loro reti di sostegno l’unica opzione è ormai da tempo restare dove sono.Dopo quelle rese note ad agosto, all’inizio di ottobre – dunque prima del raggiungimento dell’accordo tra Israele e Hamas patrocinato dagli Usa – Amnesty International ha intervistato altre 16 persone, questa volta sfollate che, tra il 6 e il 17 settembre, erano state costrette a lasciare Gaza City, sette delle quali percorrendo a piedi una distanza di 20 chilometri.Queste persone si trovavano in quattro distinte zone del governatorato di Deir al-Balah, senza alcun accesso a servizi fondamentali. Per fare i loro bisogni, scavavano piccole buche nel terreno fuori dalle tende, coprendole con un sottile strato di nylon. Bambini di non più di 10 anni dovevano recuperare un gallone (equivalente a oltre tre chilogrammi e mezzo) d’acqua e portarlo alle loro tende.Mirvat, 46 anni, madre di quattro figli, sfollata già sette volte, dormiva in un’isola spartitraffico di via Salaheddin, una delle arterie di Deir al-Balah. A causa di dolori cronici alle gambe, il suo viaggio da Gaza City era durato due giorni:“Mia figlia ha 25 anni e ha il cancro, ma ho dovuto lasciarla a Gaza City perché non poteva fare il viaggio a piedi e, fino a quando non avessimo trovato un rifugio adeguato qui, non avrebbe avuto senso farla arrivare. Deve fare la terapia oncologica ogni mese ma da agosto non la fa più perché il percorso da Tal al-Hawa, dove sta lei, a via al-Nasr, dove dovrebbe recarsi, è troppo pericoloso. Aver lasciato a Gaza City mia figlia col cancro è il mio incubo peggiore”.Weam, madre di tre figli, era stata a sua volta costretta a lasciare alla nonna a Gaza City due di loro, di cinque e sette anni, in attesa di trovare un rifugio a Deir al-Balah anche per loro:“Io posso pure dormire in mezzo alla strada, ma i miei figli sono troppo giovani. Immagina le scelte che abbiamo: a Gaza City loro stanno in una casa danneggiata e i bombardamenti non cessano; qui c’è più calma ma non ho un tetto sulla mia testa”. Dall’inizio dell’offensiva terrestre contro Gaza City, le forze israeliane hanno collocato veicoli carichi di esplosivo – chiamati “robot” dagli abitanti rimasti in città – per farli saltare in aria attivando la detonazione da remoto. Sette delle persone intervistate da Amnesty International hanno dichiarato che la presenza di questi veicoli nei loro quartieri aveva costretto le loro famiglie ad abbandonarli temendo di perdere la vita.Fyral, madre di sei figli, sfollata dal quartiere di Shuja’iya il 3 aprile, aveva cercato rifugio in un liceo femminile riadattato a campo per persone sfollate nell’altro quartiere di Tal al-Hawa. Al momento dell’intervista era da oltre dieci giorni in cerca di un nuovo rifugio perché la scuola era strapiena e affittare privatamente era economicamente proibitivo (costo medio per una piccola stanza: 2000 dollari). Ha parlato del terribile rumore delle detonazioni:“È stata la paura di quei robot esplosivi a costringerci ad andare via. Abbiamo sistemato una tenda vicino alla spiaggia, poi hanno lanciato quei volantini che ci ordinavano di allontanarci nuovamente. Così, il 17 settembre ci siamo ritrovati sfollati ancora una volta: non potevamo pagare per il trasporto, i soldi erano finiti per comprare cibo in scatola. Siamo andati a Deir al-Balah a piedi, partiti di mattina e arrivati di notte. Non c’era alcun posto dove stare. Come puoi vedere, dormiamo letteralmente in mezzo alla strada, in quest’isola spartitraffico in via Salaheddin. Usiamo i pannolini dei bambini come lenzuola. Le tende dove stavamo prima [a Gaza City] sono andare a pezzi dopo che Israele ha bombardato un edificio lì vicino. Qui c’è sempre il pericolo di finire sotto un camion. Non c’è niente che possa proteggerci”.Queste sono le parole di Raeda, sfollata quattro volte a partire dall’aprile 2025, raggiunta per l’intervista ad al-Zawayda nei pressi di Deir al-Balah:“Stiamo in mezzo alla strada, senza neanche una tenda, da dieci giorni. Siamo una famiglia di sette persone e domiamo tutte all’aperto. Non riusciamo a riposare, non c’è la minima riservatezza. Non c’è vita qui. Non ci facciamo una doccia da giorni”.Shireen e la sua famiglia erano rifugiate nel campo di al-Shati, nonostante gli ordini di sfollamento piovuti dal cielo coi volantini, perché non avevano alcun altro luogo dove andare e tutti i campi nel sud della Striscia di Gaza erano sovraffollati. Ma il 15 settembre è arrivata una telefonata dall’esercito israeliano che ordinava loro, nome per nome, di andare via. Ecco il racconto di Shireen:“Eravamo rimasti [ad al-Shati] nonostante gli intensi bombardamenti. Abbiamo perso il conto delle volte che siamo scampati alla morte, ogni notte era peggiore di quella precedente. Un edificio lì vicino è stato bombardato e completamente distrutto. Dopo quella telefonata, siamo andati via ma ho detto al tipo al telefono che non avevano alcun altro luogo dove andare. Alla fine, eccoci qua ad al-Zawayda, dove dormiamo all’aperto”.Per Shireen e la sua famiglia si è trattato dell’ottavo sfollamento degli ultimi due anni ma questo, come afferma, è stato il peggiore di tutti:“Prima almeno potevamo portare con noi una tenda, avevamo il nostro pannello solare e un po’ di soldi. Ora non abbiamo più niente. Coi soldi che ci erano rimasti abbiamo pagato il viaggio”.Il cosiddetto “accordo di pace Trump” potrà mettere fine, si spera non temporaneamente, agli orrori degli ultimi due anni ma non cancellerà ciò che hanno subito queste persone. Loro, così come tutte le altre che sono state costrette a sfollare all’interno della Striscia di Gaza, nella maggior parte dei casi più e più volte, dovranno poter tornare nelle loro terre senza che Israele stabilisca chi sarà autorizzato e chi non sarà autorizzato a farvi rientro.L'articolo “Ho lasciato lì mia figlia col cancro”. I racconti delle persone sfollate da Gaza City proviene da Il Fatto Quotidiano.