Surreale che il piano di pace per Gaza sia proposto dal massacratore: assomiglia più a una beffa

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di Luciano SestaUna tregua c’è fra due attori collettivi che si scontrano, e che a un certo punto si accordano per un time out. Una tregua presuppone una reciprocità di forze antagoniste, che sospendono lo scontro con l’idea di negoziare le ragioni che lo hanno acceso e alimentato. Ma qui, almeno da due anni, c’è stato soltanto un massacro unilaterale, in cui un attore, dopo essere stato brutalmente colpito, ha reagito sfogando la propria superiorità militare su una popolazione civile inerme, considerata impropriamente come la parte “scoperta” di un nemico nascosto.Che, dopo due anni di duro “lavoro”, l’esecutore decida di entrare in pausa è certamente una buona notizia, ma che lo faccia proponendo alla controparte un “piano di pace” è decisamente surreale. Pur essendo prima o poi necessario, infatti, un simile piano equivale oggi a una beffa, perché non si possono ammazzare 70.000 persone, fra le quali 20.000 bambini, e poi tendere un ramoscello d’ulivo ai loro genitori e ai loro figli. Come se Hamas, all’indomani del massacro del 7 ottobre 2023, avesse stilato un proprio piano di pace, porgendo amichevolmente la mano a un Israele ancora impegnato a seppellire i propri morti.C’è soprattutto un punto, nel piano Trump, che rende difficile l’attuazione di questa “pace”, ed è il totale disarmo di Hamas. Se si pensa che l’organizzazione sunnita, seppure nei modi più sbagliati e crudeli, ha tenuto viva la questione palestinese in un momento in cui stava per essere archiviata dagli accordi di Abramo, il suo totale smantellamento implicherebbe, di fatto, anche una cancellazione delle legittime rivendicazioni palestinesi. Soprattutto se si considera che ad oggi, nonostante la strage di Gaza, Hamas gode di un appoggio politico diffuso presso i palestinesi, inclusi quelli che abitano in Cisgiordania e a Gerusalemme est.Né si potrà dire che Hamas non meriti di esistere a causa dei crimini commessi il 7 ottobre o perché minaccia di ripeterli. Questi crimini si possono prevenire discutendo le ragioni politiche che spingono Hamas a commetterli, non certo cancellando Hamas. Sarebbe come agire sul sintomo senza eliminare la causa, che infatti presenterebbe immediatamente il conto, cambiando sigla, ma non strategia.Questo scenario dovrebbe averci insegnato, forse definitivamente, quanto sia stata catastrofica, per il conflitto in Medio Oriente, la reazione israeliana a Gaza. Lo scrupolo di risparmiare i civili dai propri attacchi militari ha una base morale, certamente, ma anche strategica. Se la controparte si fa forte dell’appoggio dei civili che gli fanno da scudo, mostrare di non volerli colpire può contribuire a conquistarsi la loro simpatia e il loro sostegno, privando il nemico del loro necessario appoggio. Tutti gli attacchi che colpiscono obiettivi che non rappresentano, realisticamente, una minaccia sono da considerarsi immorali, anche perché ostacolano ogni auspicabile futura risoluzione del conflitto.Un accurato rispetto delle norme di combattimento serve perciò non solo a evitare crimini, ma anche a mantenere quel grado minimo di lealtà che permette di vedere nel nemico che si sta combattendo sul momento anche l’auspicabile partner di un accordo pacifico a guerra conclusa. Come è stato notato, “violare l’immunità dei non combattenti o la proporzionalità militare rende molto più difficile stabilire la pace in futuro”, perché alimenta odio e risentimento nei sopravvissuti della parte sconfitta. Come ha sostenuto Michael Walzer analizzando l’etica dei conflitti armati, darsi dei limiti, nell’impiego della forza militare, significa non solo mitigare la quantità complessiva di sofferenza, ma anche non compromettere la possibilità di una pace negoziata con il nemico. Significa ridurre al minimo le probabilità di ulteriori rappresaglie, evitando di suscitare sentimenti di ostilità che potrebbero derivare da una condotta militare ritenuta non necessaria, brutale o iniqua. Quando invece questo avviene, com’è avvenuto a Gaza in questi ultimi due anni, prevale la sensazione che rimangano dei conti in sospeso, e covano sentimenti di rivalsa. Una pace non può mai prevedere una completa sottomissione del nemico, o addirittura una sua totale distruzione.L’auspicata cancellazione del nemico, piuttosto che il riconoscimento delle sue possibili ragioni, non è il solo motivo che rende imperfetto il “piano di pace”. Il vero motivo che oggi ci impedisce di esultare è lo stesso che ci obbliga a piangere. Perché i morti dovuti al ritardo di questa tregua non torneranno. E i sopravvissuti lo sono solo fisicamente. Qualcosa, anche per loro, è perduto per sempre.E allora sospiro di sollievo, sì, per il fuoco cessato. Ma sollievo intriso di malinconia, per l’irreparabile ormai consumato. Per il resto, il meglio è nemico del bene. In attesa che intervenga una vera politica, meglio una tregua imperfetta che la prosecuzione di una guerra finalizzata a una pace perfetta. Dunque ben venga la tregua, anche se “coloniale”. Meglio continuare a lottare, per le rispettive cause, nel silenzio delle armi che nel loro fragore. Ben consapevoli che un conflitto così brutale non si smaltisce dall’oggi al domani, e ben sapendo che tregua non è ancora pace. Anche se, forse, “tregua” è il nome dell’unica pace possibile fra quegli animali sociali imperfetti che sono gli esseri umani.L'articolo Surreale che il piano di pace per Gaza sia proposto dal massacratore: assomiglia più a una beffa proviene da Il Fatto Quotidiano.