Questo è un contenuto speciale. Lo è perché normale non poteva essere: quando uno che per anni ha collaborato a Soundwall facendo articoli ed interviste importanti fa un disco, e decidi di ocupartene, non puoi fare finta di nulla e fare un articolo o intervista come tanti altri. Lo è perché, per sfuggire appunto alla “normalità” pelosa e finto neutrale, abbiamo trovato un escamotage notevole: la realizzazione dell’intervista è stata appaltata ad un ospite a sua volta speciale – sì, speciale per davvero, perché Alberto “Bebo” Guidetti non solo è stato (è?) una colonna assoluta de Lo Stato Sociale e oggi è intellettuale, autore e performer a 360 gradi, è anche uno dei più bravi giornalisti musicali indipendenti degli ultimi anni, anche se – maledetto lui – da tempo ha smesso di scrivere di musica. È tornato a farlo per Soundwall e per Milano Paranoia, il progetto di Mirko Carera che ad un certo punto ha avuto una declinazione completa sotto forma di album, e il risultato strepitoso. “Speciale” infine lo vogliamo mettere in campo anche per il livello della conversazione che potete godervi qui, su questa pagina: si parla di musica, si parla di Milano (con lucidità, onestà), si parla con grande disarmata sincerità di problemi personali e di come siano stati gestiti e superati. Valeva la pena insomma accogliere e promuovere questo contenuto che non-è-come-gli-altri, attorno ad un disco di un producer che, nell’ottica soundwalliana, a sua volta non-è-come-gli-altri. Mirko e Bebo hanno dato vita ad una conversazione che è un piccolo manuale di umanità, di ascolto, di amore disinteressato per la musica. Tre cose che oggi spesso scarseggiano, nella corsa all’hype, ai clic, al successo, al fatturato, al posizionamento di mercato. Tre cose che, chissà, forse ancora interessano – al mondo, agli appassionati per davvero. O forse no?Prima però facciamo parlare la musica, prima. Dicevamo che Milano Paranoia, da semplice esperimento, sta diventando una cosa seria, tanto da farsi album: Mirko Carera ha voluto sincronizzare l’uscita dell’album su Bandcamp con l’uscita di questo articolo su Soundwall, e la cosa non può che farci piacere. Quindi, prima di passare all’intervista, qui di seguito, è d’obbligo facciate una sosta qui sotto (e, se il tutto vi gusta, con Bandcamp sapete che fare – nel modo più “fair” possibile per l’artista).Il mondo è un cerchio nero by Milano Paranoia***Io e Mirko ci conosciamo da molti anni, volendoci bene a fasi alterne, scazzando e ritornando indietro. Qualcuno parlerebbe di un’amicizia matura, ma da queste parti l’idea di maturare la avviciniamo più volentieri alla frutta che a noialtri.Da un paio d’anni ho deciso di interrompere la mia carriera all’interno dell’industria discografica. Il mondo cambia, io sono cambiato, bisogna anche far pace con il fatto che dopo una ventina d’anni tra organizzazione eventi, percorso artistico e tutto quello che ci sta attorno e in mezzo, si possa volere altro e, in questo contesto, è altrettanto curioso fare due chiacchiere nel merito del disco d’esordio di uno che è sì, un amico, ma è un esordiente “vecchio”. Almeno secondo i canoni dell’industria per come la conosciamo.Uno a cinquant’anni si aspetta di fare le gite fuori porta, portare a spasso il cane e godersi la vita famigliare e non di mettere assieme un disco downtempo dal piglio urbano. E devo dire, è venuto un bel disco, come alle volte succede a chi fa qualcosa che tutti gli sconsiglierebbero.Ciao Mirko, come stai? È una domanda non legata alla musica, ma so che c’entra con Milano Paranoia, se ti va di raccontare.Sto… meglio, dai. Ci sono giorni buoni e giorni in cui sembra tutto fermo. A luglio 2024 ho avuto un burnout — ero convinto fosse un infarto. Invece il cuore era ok, ma mi hanno diagnosticato una depressione moderatamente grave. Che, per carità, non è una roba terminale… però quando te lo dicono ti arriva comunque una mazzata. Anche perché c’è ancora quello stigma del “se vai dallo psichiatra sei pazzo”. Io stesso ho pensato subito a questo. Poi mi sono bastati cinque minuti per realizzare che dovevo curarmi, punto. Oggi sto meglio. I farmaci funzionano: non so più cosa sia l’ansia, quel senso di apnea che avevo tutti i giorni è sparito. Chiaro, ci sono anche degli effetti collaterali pesanti, ma è sempre il solito discorso rischi/benefici. Una mia amica mi ha detto una frase che mi è rimasta addosso: “Meglio vivere, piuttosto che sopravvivere o non vivere”. Aveva ragione. Dopo la diagnosi ho passato 30 giorni praticamente a letto, aspettando i primi segnali positivi. A un certo punto parte un meccanismo di difesa: ti devi aggrappare a qualcosa. In terapia mi hanno detto: “Inventati qualcosa di nuovo, non riprendere quello che facevi prima”. Le due idee erano: scrivere un libro o fare musica. Il problema è che scrivere mi annoia a morte, mentre la musica è diventata una roba terapeutica. Posso stare 14 ore davanti a Logic senza accorgermene. Da lì far nascere Milano Paranoia è stato un processo abbastanza naturale. Perché io non sono capace di fare “un paio di pezzi e basta”. Io ho bisogno di una struttura, di un progetto. Dovevo pensare a un disco, non a delle canzoni buttate lì. Mi serviva una scadenza, un percorso, una roba mia su cui lavorare tutti i giorni. Non per piacere a qualcuno — anzi, all’inizio e ancora oggi non me ne fregava molto — ma per avere un motivo per alzarmi dal letto. E quella cosa lì, ancora oggi, è ciò che mi tiene in piedi.(In piedi, di spalle; continua sotto)E quindi, com’è esordire a cinquant’anni? Meglio di chi diventa runner con la crisi di mezza età?Allora, intanto sono 51. Intanto. E se ci penso mi viene da cancellare tutto perché mi vergogno, ovviamente. Fa un effetto strano, no? Perché hai quella sensazione di essere “vecchio per queste cose”. Poi però dall’altra parte penso: chi se ne frega. Ho visto crisi di mezza età molto peggiori: mio fratello a 45 anni è diventato harleysta e ha iniziato a fumare a 43, quando prima odiava il fumo. Quindi, ecco, sotto questo punto di vista mi sento ancora sano. La cosa importante, per me, è guardarmi allo specchio e non ritrovarmi come Roberto D’Agostino negli anni peggiori: pieno di anelli, capelli lunghi, quella roba lì. Non voglio diventare la versione imbarazzante di me stesso, ecco. Devo dire che per partire ci è voluto tanto coraggio, perché all’inizio mi vergognavo come un matto. Poi, strada facendo, ho scoperto di avere molti più amici di quanti pensassi. Persone che hanno ascoltato, che mi hanno sostenuto, che mi hanno fatto mille critiche — più critiche che complimenti, partendo da una sincera diffidenza. Non del tipo “bravo”, ma del tipo “così non vai da nessuna parte”, “questa cosa fa cagare”, “devi migliorare questo e questo va quantizzato perché traballa”. E a me serviva sentirmelo dire. Una persona in particolare — non faccio nomi, ma di musica elettronica ne capisce — è stata durissima all’inizio. Poi un giorno, lei insieme ad altri, ha ascoltato il disco per intero e mi ha detto: “Hai fatto un lavoro superiore a ogni aspettativa. Devi esserne fiero. Anche se magari non piacerà a nessuno”. Quella frase lì mi ha dato il coraggio di pubblicarlo, di tenermelo stretto e, per la prima volta, di crederci anch’io. Per cui, sai Bebo, alla fine l’importante è solo guardarsi allo specchio e non vedersi come uno che sta rincorrendo una seconda giovinezza. Io la mia età me la tengo, mi va bene così. Questo sfogo, questo flusso di coscienza è uscito adesso così com’è, e va bene così.In questo contesto hai passato la trincea tra ascoltatore e produttore. Per me -che dopo tanti anni di vita da musicista sono ritornato nei panni borghesi- una scelta quantomeno curiosa. E cambiato il tuo rapporto con la musica.È cambiato tanto. Tantissimo. Compro ancora una valanga di vinili che poi non ascolto mai. Li metto lì, impilati, pensando “vabbè, quando finisco il disco me li ascolto”. E ovviamente non succede, perché appena ho chiuso il primo sto già lavorando al secondo, che magari non ascolterà nessuno, ma chi se ne frega: è la mia routine, la mia terapia. È che rimane quel vizio di voler ascoltare musica nuova. Però la verità è che il mio rapporto con la musica è completamente cambiato. L’altro giorno ci pensavo: siamo a dicembre, e dicembre per me era un mese figo perché pubblicavo la mia classifica dei dischi di fine anno. Quest’anno niente. Posso dirti che secondo me il disco dell’anno è quello di LaurieTorres “Apres Coup”, ma non posso parlare di “classifica” perché non ho ascoltato abbastanza roba. Io passo il 90% del tempo a sentire snare, kick, break di jungle, o a cercare nuovi sample. È diventata una malattia buona: sei sempre alla ricerca del sample che nessuno ha mai usato, della micro-variazione che ti cambia il groove. Qualcuno la chiamerebbe ossessione, disturbo ossessivo compulsivo, quella roba lì. Per fortuna il mio psichiatra non lo definisce così — ma secondo me un pochino c’è.Il disco è ricco di campionamenti e ritagli da altre fonti. Che tu abbia un orecchio allenato si sente, ma puoi scegliere solo un nome: Coldcut o K&D.Faccio il vago e ne dico tre, perché il terzo è il nome quello meno famoso ma per me conta tantissimo. Sicuramente, tra Coldcut e Kruder & Dorfmeister, scelgo Kruder & Dorfmeister. Loro hanno qualcosa che va proprio oltre la media. A me succede una cosa strana solo con tre artisti: loro, i Daft Punk e Prince. Ogni volta che ascolto una roba loro (anche adesso che produco, se cosi si può dire) mi cascano le braccia. Letteralmente. Perché ci sono scelte creative, di arrangiamento, di suono, che per me sono inarrivabili. Anche quando partono dal sample più semplice del mondo… ma quel sample lo devi trovare, devi capirlo, devi farlo suonare in un modo preciso, devi montarci sopra altre cose. Tu lo sai meglio di me: non è una roba facile, è complicata, richiede una sensibilità assurda. Gli altri due nomi sono Thievery Corporation, che per me durante questo anno di cure hanno significato tantissimo. Paradossalmente li ascoltavo meno quando erano “in voga”, perché erano troppo lenti per il Mirko di allora. Io la musica lenta ho iniziato ad apprezzarla tardi, con l’età. L’ultimo nome sono i Thunderball. Stessa etichetta dei Thievery. Per me sono una reference importante: quel lato cinematografico che avevano nei loro due dischi è una cosa che mi parla tantissimo oggi. Queste sono le mie scelte. E ti dico la verità: ogni volta che li ascolto — e li ascolto ancora molto — è sempre lo stesso effetto: ti lasciano a bocca aperta. Sono reference inarrivabili, ed è giusto così. Non è che uno può decidere “voglio diventare Mozart”. Mozart ci nasci, non ci diventi. Puoi provare ad avvicinarti, fare la tua versione. Nel mio disco, rispetto a K&D, onestamente credo di essermi avvicinato a un 20%, forse 30% se voglio essere ottimista. E va bene così. Mi accontento anche di quello.A parte i giochi, la scelta di andare su territori musicali “vintage” è stata una scelta casuale o progettuale?È stata una scelta progettuale. Avevo chiarissimo soprattutto cosa non volevo fare. Avevo deciso da subito: niente cassa dritta, niente house, niente french touch e niente techno e derivati. Volevo riprendermi i miei vent’anni, i miei anni ‘90, volevo rivivere un’epoca per me felice: canne, posse, quel giro lì che si era creato tra il ‘94 e il ‘98. Casino Royale, Bisca 99 Posse, Delta V, Subsonica … Quest’anno è pure il trentesimo anniversario di “Sempre più vicini”, e io quel tour lì l’ho seguito tantissimo. Mi ricordo una primavera e un’estate incredibili con quel disco. In quegli anni stavo dentro al rap, all’hip hop, ma soprattutto passavo serate infinite tra Leoncavallo e Deposito Bulk. Al Leonka c’era Downtown, e girava della musica pazzesca. Il suono che girava in quel periodo è la musica che ho messo nel mio disco: jungle, downtempo, trip-hop. Per me esiste una linea di demarcazione: prima del G8 di Genova e dopo Genova. Dopo il G8 tutto quel movimento si è sfaldato, prima, invece, era un movimento vero, di aggregazione, dove la musica aveva un ruolo enorme. E la jungle — non la drum’n’bass, proprio la jungle — era fondamentale: contaminata, multiculturale, aperta. Una roba che metteva insieme mondi diversi. In Italia, secondo me magari, arrivava un 10% di quello che succedeva davvero a Londra o a Bristol, ma quel poco che arrivava era prezioso. E’ assurdo pensare che adesso rischia di sparire tutto con gli sgomberi di oggi, e con l’abbattimento di luoghi che per Milano sono stati fondamentali artisticamente e culturalmente. Lo dico senza retorica. Al Leoncavallo ho visto Aphrodite e Goldie credo possa bastare solo questo. Comunque sì: io volevo fare la musica che ascoltavo in quel periodo. Mi ci sono buttato, mi sono riascoltato tutti i dischi, tutto quel mondo lì.Assieme al disco c’è anche un libretto che spiega quello di cui accennavi prima, così come il nome del progetto. È un disco anche cinematografico, sta piuttosto bene come OST una grande città. C’è oggi un suono di Milano?Secondo me un suono di Milano c’è, non è il mio, il mio è più agé, più anni ‘90. Il suono di Milano oggi, per come lo sento io, è quello che esce dalle casse JBL Bluetooth montate sui monopattini dei ragazzini che i media, frettolosamente, hanno catalogato come “maranza”. È solo un’etichetta: quando ero piccolo io c’erano i paninari. Il meccanismo è sempre quello. Quel suono lì racconta benissimo la Milano multiculturale in cui vivo, che poi non va proprio a braccetto con il sindaco, anzi non ci va per niente — non entro troppo nella politica, ma Milano Paranoia è un atto politico e di ribellione. Questo va detto. Invece di catalogare questi ragazzi, bisognerebbe ascoltarli, loro e il loro suono. Perché quel suono è un mix incredibile: rap italiano, trap, musica magrebina, elettronica magrebina mischiata alla trap. Quando porto il cane al parco e li sento, impazzisco. Avessi 18 anni mi ci butterei dentro. È una musica super contaminata, dove se ne fregano dell’appropriazione culturale. Sono compagnie di ragazzi di origini diverse che passano da Gué a un cantante tunisino in un attimo. Per loro è naturale. Se lo facessi io sarebbe più problematico, ma per loro no. Quindi sì: il suono di Milano oggi è quello che esce da quelle casse. Descrive perfettamente questa città che — vista dalla mia età — è una città oscura, non nera ma oscura. Non è la Milano scintillante del 2015. È una Milano paranoica. Se hai 50 anni senti una paranoia diversa; se ne hai 15, la paranoia è quel suono lì.(Mirko Carera e il suono di Milano Paranoia; continua sotto)Dici che il tuo disco non rappresenta il suono di Milano e sono d’accordo, ma dopo anni di vita romana (che è una città molto legata alla cassa dritta), penso che un disco come il tuo sia anche figlio della vita frenetica nella capitale economica del paese.Guarda, condivido il discorso su Roma. Anch’io ci ho vissuto sette anni e non credo che lì mi sarebbe venuto in mente di fare un disco così frenetico. Roma ha un altro suono, un altro passo. E se fossi stato ancora a Roma — e se fossi stato capace — probabilmente avrei fatto un disco alla Donato Dozzy dei primi tempi. È una città che ti porta più in quella direzione lì. Il mio disco invece è sicuramente figlio del ritmo di Milano, e su questo sono convinto al cento per cento. Milano è una città con un ritmo pazzesco, che tende letteralmente a mangiarti. Se non la capisci, o se non ti adegui un minimo al suo ritmo, ti ingloba e ti schiaccia. Con me l’ha fatto, e l’ho visto fare a tanti. Questo spiega perché nel disco ci siano momenti frenetici e momenti lenti: secondo me c’è un equilibrio. Perché a un certo punto provi tu a dettare il ritmo alla città — non il ritmo musicale, proprio quello di vita. Ma è come combattere un mostro a tre teste: ritmi lavorativi, abitudini, puntualità… Milano pretende ordine, velocità, presenza costante. Se non reggi, ti fagocita. E dentro il disco c’è anche questo bisogno di rallentare. Milano ti concede quel rallentamento solo quando trovi un equilibrio tuo, quello che hai dentro casa. Perché se vivi la Milano degli aperitivi e delle cene fuori tutte le sere, il ritmo rimane sempre frenetico. Dipende anche da quale Milano vivi: io non vivo la Milano fighetta, e probabilmente questo cambia tutto. Quando stacchi da quel ritmo e rientri nella tua bolla domestica, diventa quasi naturale — necessario — scendere nei ritmi del downtempo, del trip-hop. Ecco, forse il disco nasce proprio lì: nella collisione tra la frenesia fuori e il rallentamento dentro.Visto che hai parlato di musica da giovani: del ritorno di Neffa? Te lo sei ascoltato? E poi delle cose più vicine per davvero a quello che si ascoltano i Regaz molto più giovani di me e te c’è qualcosa che ascolti anche tu?Sì, l’ho ascoltato il disco di Neffa. Così come ho ascoltato anche quello dei Casino Royale, che è piaciuto a tutti. Per carità, chi sono io per dire che sono dischi brutti? Però… non sono né “Neffa & i Messaggeri della Dopa” né “Sempre più vicini”. Mi dispiace, poi chiaro anche lì sento il lavoro che ha fatto clap clap! Con I casino royale e mi cascano le braccia da quanto è bravo… Secondo me — ma lo stesso discorso vale per i Subsonica — probabilmente sono cresciuto io e sono cresciuti tanto loro, e sono due strade che ormai non si incrociano più. Sono bei dischi, ma not my cup of tea. Soprattutto quello dei Casino Royale: non riesce a entrarmi dentro come mi sono entrati dentro “Sempre più vicini” o anche “CRX”. Neffa, invece… Allora: non sono uno di quelli che si può definire “deluso” dal suo disco. Deluso da cosa? I suoni sono belli, i beat sono bellissimi. Però secondo me ci sono troppi featuring. A me questa cosa dei featuring sta sul cazzo: cosa vuol dire fare un disco con dodici collaborazioni? Non l’ho mai capita. Però sono gusti personali, eh. Magari sono i dischi giusti per la generazione di adesso. O, al contrario, magari sono proprio dischi fatti per cinquantenni e io non li capisco. Può essere anche quello. Invece, se parliamo di cose più vicine a quello che ascoltano i regaz giovani, sì, qualcosa la ascolto anch’io. “Papota”! Il disco di CA7riel & Paco Amoroso — quello mi fa impazzire. Secondo me è uno dei dischi dell’anno: proprio roba bella, fresca, viva. Mi piace quello che fa Marracash e anche questo ragazzo calabro/londinese SKT anche se chiamare le ragazze troie ha rotto il cazzo, oltre ad essere anacronistico e terribilmente fuori moda E poi, così giusto per chiudere il cerchio: trovo molto sopravvalutata Rosalía.Una delle critiche che ti ho mosso dopo i primi ascolti è (l’inevitabile) naïveté che emerge di tanto in tanto. Più di ogni mestiere della musica quello del producer si affina con il tempo. Hai già fatto pace con la finalizzazione dei progetti o li apriresti in continuazione?No, e non lo farò mai. È una guerra aperta. Proprio una guerra aperta. L’altro giorno commentavo un video TikTok di una ragazza che dà trick su Logic, Kemonia. Per me lei ormai è fondamentale. Le raccontavo una cosa assurda: io, della stessa canzone, ho mille versioni: bounce del bounce, kick fixed, 17 agosto, premix volumi sbagliati, mix synth giusti… A un certo punto mi sono dovuto fermare. Accettare il disco così com’era. Mi ricordo una frase del mio amico Giulio: “Quando arrivo alla fine del disco, io ormai lo odio”. Ecco, io uguale. Io il mio disco non lo sopporto più. Ora ci faccio pace solo perché sto preparando i live… Ecco, questa cosa di dire “Faccio dei live” mi fa ridere, ma sono contentissimo. Però il disco lo odio perché ci ho passato un anno intero sopra. La mia ragazza mi odia — gli ho rovinato due vacanze. Eravamo in montagna e io pensavo solo: “Quello snare è una merda”, “Quel synth è una merda”, “Voglio tornare a casa a sistemarlo”. Alla fine ne ero nauseato. E non ho intenzione di farci pace. E’ un album imperfetto e pieno di errori, ma è giusto così: fai un disco, impari, passi oltre. Chiudo dicendo una cosa seria, anzi due: io ho potuto permettermi questa pazzia perché ho un lavoro mio ma ho capito che la musica non è alla portata di tutti. Se vuoi un certo suono, servono plug-in, strumenti, soldi. Non basta Logic e nemmeno i suoni stock di Logic per quanto alcuni fighissimi.È brutto da dire, ma è così. Poi c’è la questione Spotify, quella per me è un’altra guerra. Vorrei che la mia musica fosse ascoltata da tutti, ma mettere il disco su Spotify mi dà un fastidio enorme, Nel disco c’è scritto FREE PALESTINE a caratteri cubitali, mettere una cosa così sulla piattaforma più ambigua del mondo non è una scelta serena ma temo necessaria. Però la vita è fatta di compromessi. E’ l’unico compromesso che ho accettato per questo lavoro, e non mi piace per niente. La mia speranza è liberarmene presto. Visto che ho l’opportunità di parlare su Soundwall — che, anche grazie a Damir, amplifica bene i concetti importanti — mi fa piacere poter dire una cosa: io i soldi di Spotify non li voglio. Se mai dovessi guadagnare più di 100 euro, quei soldi andranno a un’associazione che aiuta il popolo palestinese o similari. Sono soldi che non mi interessa tenere in tasca. Non volevo chiudere l’intervista in maniera così pesante, però questa cosa negli ultimi giorni mi sta girando tanto nella testa. Non mi toglie il sonno, ma mi preoccupa. È l’unico compromesso che ho accettato, e voglio risolverlo presto.The post Milano Paranoia: la musica come terapia (ma stavolta per davvero) appeared first on Soundwall.