Il sogno di Trump

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di Gianvito Pipitone – Paolo Mieli, in uno dei suoi imperdibili interventi mattutini a Radio 24, ha colto un punto che sembra sfuggire a molti: ci stiamo lasciando narcotizzare da una riproposizione muscolare della Dottrina Monroe, su larga scala. Gli Stati Uniti hanno cioè ripreso a considerare l’America Latina come il proprio cortile di casa, una zona di influenza privilegiata da gestire a proprio uso e consumo, dove non è ammessa alcuna ingerenza esterna, né europea né di altre potenze mondiali. Lo spunto è stato il sequestro di una petroliera venezuelana da parte delle autorità militari americane, episodio che fa scalpore non tanto per il gesto in sé, quanto per il silenzio assordante che lo accompagna. “Abbiamo appena sequestrato una petroliera sulla costa del Venezuela, molto grande, in realtà la più grande mai sequestrata,” ha dichiarato Trump con il suo consueto tono trionfante. “E stanno succedendo altre cose, vedrete più tardi.” Ebbene, nessun governo europeo ha protestato, nessun comunicato ufficiale è stato diffuso. Un vuoto che, seguendo il ragionamento di Mieli, sembra confermare l’abbrivio di questi ultimi tempi: la tacita spartizione del mondo in precise sfere d’influenza.Non è una novità, certo, ma le evidenze degli ultimi mesi ci dicono che la direzione è proprio questa. L’America, in tutte le sue declinazioni – settentrionale, centrale, caraibica e meridionale – agli Stati Uniti. La Cina e l’India impegnate a spartirsi il Sud-Est asiatico. Con Taiwan, la nuova vittima sacrificale designata. E la Russia, ahinoi, a fare il bello e il cattivo tempo nel quadrante nord-est, quello che ci riguarda da vicino. Una prospettiva che non è solo realista, ma corroborata dai fatti e dalla narrazione geopolitica di questi ultimi disgraziati tempi. E va da sé che non si tratta soltanto di sfere economiche, ma anche politiche e inevitabilmente militari.Eppure, a ben guardare, appare davvero incredibile pensare che gli Stati Uniti possano davvero abbandonare l’Europa al proprio destino. Per quanto l’Indo-Pacifico sia la nuova priorità assoluta di Washington, sono troppi gli interessi economici e strategici in gioco per sganciarsi da una politica di sostegno militare e politico con il vecchio continente. Sua prima colonia. È vero, Trump ha detto con brutalità che l’Europa è destinata a scomparire fra due decenni. Una provocazione, forse un bluff, ma che stavolta non può essere liquidata con leggerezza.L’impressione è che il presidente americano stia premendo sull’acceleratore in questo primo biennio, alzando l’asticella su dazi, guerre e posture muscolari, per testare fino a che punto può spingersi. Sa che a novembre 2026 lo attende la prova del fuoco delle elezioni di mid-term, e che lì si misurerà la tenuta della sua base. Una base Maga che oggi appare sgretolata, delusa da un’America First tradita da politiche interventiste e da un malessere sociale crescente, aggravato da limitazioni delle libertà che hanno fatto vacillare persino i conservatori più convinti. A questo si aggiunge l’ombra dell’affaire Epstein, che il tycoon non è ancora riuscito a dissipare. Non a caso, Trump ha inaugurato qualche giorno fa dalla Pennsylvania un tour elettorale che lo porterà in giro per gli Stati Uniti fino alle mid-term, con l’obiettivo di convincere gli americani che il loro problema più sentito – l’affordability, ossia il costo della vita fuori controllo – sia solo una bufala agitata dai democratici, nonostante l’inflazione crescente alimenti il malcontento.La seconda parte della sua presidenza, quando il rinculo delle politiche impopolari si farà sentire, quando cioè potrebbe perdere la maggioranza dei parlamentari al Congresso, potrebbe invece essere dedicata a recuperare il consenso interno. Non è un caso che dopo l’elezione nel 2024, l’unica occasione in cui si è mescolato a folle oceaniche sia stato il funerale di Charles Kirk, lo scorso settembre. Da allora, niente più bagni di folla. Ma è facile immaginare che torneranno, insieme al folklore del Make America Great Again: cappellini, bandiere, gagliardetti e la sagoma del ciuffo più famoso del mondo. Così come, torneranno utili anche le connessioni con l’ultra-destra, i movimenti sovranisti che Trump non ha mai smesso di coccolare, in patria così come in Europa.Non per niente, il sovranismo è un’altra delle colonne portanti del trumpismo. Il ponte con i movimenti neo-nazisti europei è già assodato. Una delegazione di quaranta membri di Alternative für Deutschland per la Germania (AfD) è attesa a Washington in questi giorni su invito di alcuni deputati repubblicani della Camera, tra cui Anna Paulina Luna. L’incontro segna un ulteriore passo nell’intreccio tra le destre radicali europee e l’universo trumpiano. Lo ricordiamo tutti: Elon Musk, intervenendo a gennaio a un congresso dell’AfD, ha definito il partito neo-nazista tedesco “la migliore speranza per la Germania”, ricevendo il plauso dello stesso Trump, che non ha mai nascosto la sua simpatia per questi partiti di ultra-destra. Non a caso, anche in queste settimane il presidente ha usato parole mirate a titillare la base sovranista europea. D’altra parte, il sovranismo, nato e cresciuto a casa Trump, affonda le sue radici nell’esperienza del capostipite Steve Bannon – che, pur mantenendo oggi un ruolo più defilato, continua a far parte del cerchio magico trumpiano – e si è diffuso in Europa attraverso il progetto di “internazionale populista” The Movement, con sede a Bruxelles.Tutti questi fili sembrano convergere verso un solo obiettivo: cancellare la Comunità europea, fare fuori i leader nazionali invisi a Trump – il galletto Macron, l’abbronzato Merz, e tutti gli europeisti convinti definiti “deboli e disuniti” – e, allo stesso tempo, solleticare governi più in linea con la sua presidenza, come quello di Giorgia Meloni e dell’ungherese Viktor Orban, per consolidare un asse autoritario e illiberale che gli consenta di realizzare il suo sogno.Già, il sogno di Trump. Un sogno che si articola lungo direttrici precise, intrecciando economia, politica, società e cultura, e dando vita a una visione coerente e muscolare del ruolo dello Stato nazionale. Sul piano economico, la sua postura è segnata da un forte protezionismo: dazi indiscriminati, difesa delle industrie interne, critica feroce alla globalizzazione e rifiuto dei vincoli imposti da istituzioni sovranazionali come UE, FMI o WTO, percepite come minacce alla sovranità americana. Politicamente, si traduce in un antieuropeismo dichiarato e nella diffidenza verso il multilateralismo, con la preferenza per accordi bilaterali che rafforzino la centralità dello Stato come unico garante della volontà popolare. Socialmente, il sovranismo trumpiano si manifesta nel contrasto all’immigrazione e nella difesa dei confini, con politiche identitarie che privilegiano la cittadinanza nazionale, bianca, e rifiutano modelli multiculturali, in nome di una coesione interna da preservare. Infine, sul piano culturale, si esprime nella valorizzazione delle tradizioni e della memoria storica “identitaria”, accompagnata da una critica feroce al pensiero woke, alle élite cosmopolite e alle istituzioni globaliste, con una narrativa che oppone sistematicamente il “popolo” alle “élite”.In questo intreccio di interessi, Trump non mette in campo soltanto una strategia politica, ma una narrazione simbolica che punta a mobilitare consenso attorno all’idea di un’America chiusa, forte e autosufficiente. Un sogno che, per noi europei, rischia di trasformarsi nel peggior incubo. Non perché ci interessino particolarmente le sorti dei cittadini americani – non solo, per lo meno – ma perché quel modello pretende di imporsi in quel che rimane dell’Occidente, senza possibilità di critica e non ammette alcuna differenziazione rispetto all’originale. Speriamo di no, ma le tessere del mosaico sembrano già tutte al loro posto.