di Giuseppe Gagliano – Negli anni Novanta la “guerra alla droga” era uno slogan. Oggi, negli Stati Uniti di Donald Trump, rischia di diventare una vera guerra, con regole proprie e confini sempre più sfumati. L’ultimo attacco di Washington nei Caraibi, tre morti a bordo di un’imbarcazione colpita in acque internazionali, 17ma operazione dall’inizio della campagna, è molto più di un episodio di cronaca militare: è il sintomo di una dottrina che scavalca il diritto penale, aggira i controlli politici interni e apre un fronte geopolitico che va ben oltre i cartelli della droga.Il segretario alla Difesa, Pete Hegseth, ha rivendicato l’operazione come parte di un “conflitto armato” contro organizzazioni criminali considerate terroristiche. Le navi colpite, assicura il Pentagono, trasportano stupefacenti e appartengono a strutture legate al narcotraffico internazionale. Ma non vengono fornite prove pubbliche, non vengono mostrati sequestri, non esiste alcuna procedura giudiziaria ordinaria. Conta solo l’ordine presidenziale, blindato da un parere segreto del Dipartimento di Giustizia.Il punto centrale non è la pericolosità dei cartelli, che nessuno mette in dubbio. È il salto di categoria: da fenomeno criminale da perseguire con indagini, processi, cooperazione giudiziaria, a nemico armato contro cui impiegare missili e forze navali senza controllo giudiziario. La Casa Bianca sostiene che si tratta di un conflitto armato legittimo, che consente l’uso della forza letale. Membri del Congresso e organizzazioni per i diritti umani ribattono che si tratta di esecuzioni sommarie, senza processo, contro persone che, per il diritto interno e internazionale, dovrebbero essere imputati, non obiettivi militari.Dietro il linguaggio giuridico si intravede una trasformazione politica: se la presidenza riesce a far passare l’idea che contro i cartelli si possa agire come contro un esercito nemico, allora il confine tra lotta al crimine e guerra preventiva diventa sottilissimo. Oggi tocca alle imbarcazioni nei Caraibi, domani potrebbe riguardare infrastrutture o basi sospettate di servire i narcotrafficanti, magari in territori sovrani di altri Stati. È esattamente ciò che alcuni senatori temono: una lenta normalizzazione dell’uso della forza fuori dai casi di guerra dichiarata.Il contesto rende tutto più chiaro. Mentre le unità statunitensi colpiscono barche nei Caraibi e nel Pacifico, la Casa Bianca mantiene un’alta presenza militare nelle acque vicino al Venezuela. Ufficialmente, si tratta di contrasto al narcotraffico e di risposta alla “complicità” del presidente Nicolas Maduro con i cartelli. Politicamente, però, il messaggio è un altro: il regime di Caracas è sotto pressione militare, circondato e delegittimato.Durante una riunione riservata con i parlamentari, il segretario di Stato Marco Rubio e lo stesso Hegseth hanno dovuto ammettere che, per ora, non esiste alcuna base legale per colpire obiettivi all’interno del territorio venezuelano. Il parere giuridico che copre gli attacchi in mare non autorizza operazioni su terra. È un limite che molti, nell’entourage trumpiano, vorrebbero superare.Il voto del Senato su una risoluzione bipartisan che avrebbe vietato un’azione militare contro il Venezuela senza il via libera del Congresso è indicativo: il testo è stato respinto per soli due voti. Democratici come Tim Kaine e Adam Schiff, insieme a repubblicani non allineati come Rand Paul e Lisa Murkowski, hanno tentato di riaffermare il potere di guerra del Congresso. La maggioranza repubblicana ha scelto di non porre argini all’elasticità del presidente.Il risultato è un sistema in cui la Casa Bianca può aumentare la pressione navale, avvicinare mezzi militari, far trapelare ipotesi di operazioni future e, allo stesso tempo, presentare tutto come mera “lotta alla droga”. L’ombra del cambio di regime aleggia sullo sfondo.Di fronte a questa strategia, il Venezuela si muove come un Paese assediato. Maduro cerca sostegno dove può: a Cuba, in Nicaragua, in quella piccola cintura di alleati ideologici che condividono l’isolamento internazionale e la dipendenza da sponsor esterni.La notizia di un grande velivolo cargo di una compagnia russa sanzionata che collega Caracas, L’Avana e Managua non è un dettaglio di colore. È la fotografia di una rete: Russia che offre mezzi e know-how, tre regimi latinoamericani che cercano appoggio politico, forse tecnico, in caso di ulteriore stretta statunitense. Non servono grandi voli di fantasia per capire che un aereo noto per il trasporto di armi e mercenari non si limita a fare scalo per turismo.Sul piano economico, questi Paesi hanno margini ridotti: sanzioni, crisi interne, dipendenza energetica e commerciale da pochi partner. Ma sul piano simbolico, l’asse serve a Maduro per mostrare che il Venezuela non è del tutto isolato. Cuba e Nicaragua, a loro volta, dimostrano che il fronte antiamericano, per quanto logoro, esiste ancora. Ed è pronto a usare la retorica anti-imperialista per legittimare ogni forma di repressione interna.Il paradosso è evidente: la “guerra alla droga” statunitense e la retorica antiamericana di Caracas si alimentano a vicenda. Washington ha bisogno di un nemico esterno per giustificare l’espansione degli strumenti militari nella regione; Maduro ha bisogno della minaccia statunitense per tenere insieme un sistema economico fallito e un blocco di potere sempre più ristretto.Intanto la regione paga il prezzo. Le rotte della droga non si fermano perché una barca viene affondata: si spostano, si frammentano, diventano più violente. Le sanzioni contro il Venezuela aggravano la crisi sociale, spingono all’emigrazione e offrono manodopera ai cartelli. Il Messico, che già fronteggia un conflitto quotidiano con i gruppi criminali, ha condannato gli ultimi raid nel Pacifico, accusando gli Stati Uniti di superare i limiti della cooperazione bilaterale.Sul piano militare, il rischio è quello di una lenta militarizzazione dei Caraibi: più navi, più esercitazioni, più operazioni “segrete ma non troppo”. Sul piano politico, l’erosione del controllo parlamentare sui poteri di guerra negli Stati Uniti offre un precedente che altri potrebbero imitare. Se basta definire “terroristica” un’organizzazione criminale per autorizzare attacchi mirati fuori dai confini, molte regole del diritto internazionale iniziano a traballare.La vera domanda, alla fine, non è se questi attacchi ridurranno il flusso di stupefacenti negli Stati Uniti. La storia recente dice che nessuna strategia puramente repressiva ha mai ottenuto questo risultato. La domanda è un’altra: che tipo di mondo lascerà questo modo di condurre la “guerra alla droga”?Un mondo in cui la distinzione tra polizia e esercito, tra giustizia e guerra, tra lotta al crimine e geopolitica, diventa sempre più labile. Un mondo dove il presidente di una grande potenza può colpire in acque internazionali sulla base di pareri legali segreti, e dove i Paesi bersaglio, isolati e impoveriti, si aggrappano a ogni alleato pur di sopravvivere.In questa partita nessuno è innocente. Ma una cosa è certa: quando le navi da guerra diventano lo strumento principale di politica antidroga, è il diritto a essere messo sotto tiro per primo. E, con esso, la fragile idea che il potere debba avere almeno qualche limite.