A volte il meglio può essere nemico del bene. Vecchio adagio che invita a non cedere alla tentazione degli eccessi di zelo. Fosse stato seguito dall’Istat, nel corso dell’audizione del suo presidente sulla legge di bilancio 2026, ci saremmo forse risparmiati una parte di quella baraonda che, in questi giorni, sta segnando i rapporti, sempre più tesi, tra maggioranza ed opposizione. L’esposizione dell’Istat, infatti, aveva trovato orecchie pronte a recepirla, per costruire, su alcune delle tabelle presentate, un attacco virulento contro Giorgia Meloni ed il suo governo.Il corpo del resto era dato dalla tavola 1 che ha accompagnato la relazione, dal titolo: modifiche all’Irpef secondo quanto previsto dall’articolo 2 – effetti sulle famiglie beneficiarie per quinti di reddito equivalente. Quel taglio dell’Irpef di 2 punti che riguarderebbe l’imponibile compreso tra 28 mila e 50 mila euro l’anno. Beneficio che secondo l’Istituto di Via Cesare Balbo, riguarderebbe il 44 per cento delle famiglie residenti. Con una percentuale crescente – dal 2,8 al 90,8% – dal basso verso l’alto. Dalle famiglie più povere, appartenenti al primo quinto di reddito, a quelle più ricche dell’ultimo scaglione.Le successive classificazioni indicavano un guadagno minimo, in euro, pari a 102 euro ed uno massimo di 411. Di conseguenza le somme disponibili sarebbero state distribuite da un minimo dello 0,5% del totale ad un massimo del 62,2%. Sempre a vantaggio delle famiglie più ricche. Conclusioni, come appare evidente, destinate ad incendiare il dibattito politico. E dare corpo all’accusa di provvedimenti eccessivamente a favore dei redditi maggiori. Alla base del calcolo fornito era il reddito disponibile equivalente. Vale a dire il reddito totale netto delle varie famiglie, diviso il numero dei membri della famiglia stessa, pesati a seconda dell’età di ciascuno: 1 al primo adulto, 0,5 al secondo con più di 14 anni, 0,3 per ogni bambino inferiore a 14 anni. Qualcosa, quindi, che non esiste in natura, ma è figlio di una specifica elaborazione statistica. Era un’operazione indispensabile?Dato il tipo di indagine, il metodo seguito appare essere quanto meno ridondante. Il Modello di micro-simulazione delle famiglie (FaMiMod) va bene per analisi complesse, ma in questo caso il meglio sembra proprio essere stato nemico del bene. Sarebbe stato, infatti sufficiente, rivolgersi ad un CAF, per avere una valutazione efficiente sulle conseguenza della variazione delle aliquote. Avendo come centro di imputazione non la famiglia, ma il singolo contribuente. Che, com’è evidente, può essere singolo, sposato, convivente, divorziato e via dicendo. Godrà sempre di un beneficio individuale, che solo successivamente si rifletterà sul suo stato civile.Seguendo questo schema i risultati sono alquanto diversi, almeno nel loro significato politico. In questo caso i guadagni, in termini di minore imposte, variano a secondo dell’imponibile. Sono minimi (20 euro) per un imponibile pari a 29.000 euro (infatti l’agevolazione si applica solo su 1.000 euro), massimi per un imponibile di 50.000 pari a 440 euro (agevolazione calcolata su 12.000 euro, pari alla differenza tra 50.000 e 28.000 euro). Questa è anche l’agevolazione massima, che rimane costante fino ad un imponibile di 200 mila euro. Oltre quella soglia l’agevolazione è compensata dall’eliminazione di altre detrazioni.Cambia poco: si potrebbe dire. Chi guadagna di più ha un maggiore vantaggio. Sennonché quest’ultimo va correlato al valore dell’imponibile. Nello scaglione 28/50.000 euro, in effetti, si passa da una riduzione di imposta pari allo 0,3% per un imponibile pari a 29.000 fino ad un massimo del 3,1% per un imponibile pari a 50.000. Ma poi questa percentuale decresce per raggiungere la percentuale dello 0,6% per un reddito di 199.000 euro. Graficamente, basti vedere il report dell’UPB, siamo di fronte ad una retta che prima fa crescere il risparmio d’imposta (fino a 50.000 euro di imponibile) per poi tendere a zero. Grafico che trova spiegazione nel taglio lineare proposto (2 punti) e nel gioco dei tre scaglioni che regolano la dinamica complessiva dell’Irpef.Ne deriva che se si volevano risultati diversi, occorreva non agire sulle aliquote dei singoli scaglioni, ma garantire, in cifra fissa, un possibile sgravio solo a determinati redditi o singole categorie professionali. Con la conseguenze di alimentare ulteriormente la giungla fiscale italiana. Si prendano in considerazione i dati forniti dal Mef – Dipartimento delle Finanze: nel 2003 la ripartizione del carico dell’Irpef (dichiarazioni del 2004) è avvenuta sulla base dei seguenti parametri. I contribuenti al di sotto di una classe di reddito inferiore a 50 mila euro, pari al 92,9% dell’intera platea, hanno sostenuto il 72,3% del gettito complessivo, mentre sul restante 7,1% si è scaricato il rimanente 27,7%.Chi parla, con tanta facilità di nuove patrimoniali, dovrebbe innanzitutto riflettere su queste diverse proporzioni. Tanto più se si considera che la pressione fiscale italiana, che già nello scorso anno era inferiore solo al Belgio, la Francia e l’Austria, nel 2025, se tutto andrà bene, sarà pari al 42,8% del Pil. Quando la Spagna, l’ultimo innamoramento della sinistra italiana, può contare su un vantaggio relativo di oltre 5 punti di Pil.Se il metodo seguito dal governo, era sbagliato, visti i risultati, era meglio agire ancora una volta sugli sconti? Ricorrere cioè ad un nuovo bonus, da modulare politicamente? Sempre nel 2023, le detrazioni di imposta sul gettito complessivo dell’Irpef sono state pari a 79,2 miliardi di euro, pari al 41,7% del gettito complessivo. Sono andate per il 91,9% a favore di percettori di redditi fino a 50 mila euro l’anno. Con un’assoluta prevalenza (oltre il 20% del totale) nelle tasche di coloro che hanno percepito un reddito compreso tra 20 e 26 mila euro l’anno. Da questo punto di vista, quindi, anche i ricchi piangono. Eccome! Ma si sa. A volte la sinistra italiana è incontentabile.