Mi tocca elogiare la Juventus: abitare la vetta è cultura

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Ok, lo faccio davvero: da tifoso del Napoli mi tocca fare un elogio alla Juventus. Non alla Juve delle ultime stagioni, ma a quella col vecchio DNA, che ha trasformato la vittoria in un’abitudine organizzativa e non in un’impresa episodica. Nove scudetti consecutivi con tre allenatori diversi non sono un’eccezione statistica: sono la prova di un sistema che regge il peso della ripetizione perché la vittoria viene trattata come lavoro quotidiano, linguaggio comune, processo che sopravvive alle persone. Al netto degli scandali (riprovevoli), che però nella narrazione hanno finito per agire da rumore di fondo più che da freno alla continuità dei successi, il punto è proprio questo: lì la pressione del “vincere ancora” è stata gestita come cultura, non come impresa eroica. È un dato che la cronaca ha scolpito, con Conte ad accendere il ciclo, Allegri a stabilizzarlo e Sarri a mettere il nono sigillo, mentre fuori dal perimetro di Torino tanti (e talvolta anche gli stessi) tentavano di replicare senza riuscirci con la stessa continuità.Gli spogliatoi raccontano ciò che la letteratura manageriale (e l’esperienza diretta) conferma. Dopo il primo titolo cambia la chimica invisibile che muove i gruppi: l’appagamento, la difesa del già conquistato, la narrazione esterna che passa dal “costruire” al “confermare”, la micro–ansia del “non sbagliare” al posto dell’ardore del “provare”. È il passaggio più sottovalutato, quello in cui la qualità della motivazione scivola dall’intrinseco all’estrinseco se l’ambiente non protegge autonomia, competenza e appartenenza: quando queste tre leve non sono presidiate, l’energia competitiva si sfilaccia, prima nella testa e poi nelle gambe. La letteratura che ha messo radici nello sport su questi temi non è una moda: è un canovaccio robusto per leggere ciò che vediamo ogni estate quando si ricomincia da campioni.La pressione del “bis”, del “tris”, del “poker”, lavora per accumulo. Ogni ciclo ricomincia con attese più alte, margini d’errore più stretti, luci più calde addosso. La psicologia della competizione ci dice anche un’altra cosa: il favorito cambia copione mentale, scivola verso una postura difensiva, tende a giocare per non perdere. È il controcanto della favola dell’underdog, potente proprio perché libera energie identitarie e sociali che la squadra dominante fatica a replicare nel lungo periodo, se non ha un’identità che ritualizza la fame.Sul medio periodo entra in scena la fatica che non vedi: non i muscoli, ma l’attrito mentale della ripetizione, il perfezionismo che si mangia il piacere del gioco, il cinismo come corazza. Gli studi più recenti sul burnout nelle aziende lo descrivono con chiarezza: calano l’energia percepita, l’engagement, il benessere; e quando la fiamma interiore si fa debole, la prestazione diventa intermittente. Nei mesi decisivi molte squadre da titolo calano di testa senza una causa visibile e finiscono per concedere gol banali proprio quando conta di più.E allora perché proprio lì, in quella Juve, il ciclo ha retto così a lungo? Perché ciò che altrove è un obiettivo, lì è stato uno status. È una differenza culturale prima ancora che tecnica: non un carico in più, non una bacchetta magica nello staff, ma un modo di intendere stagione, comunicazione e selezione interna come pezzi dello stesso ingranaggio. È esattamente l’intuizione di chi, anche dalle nostre parti, osservando da vicino, ha dovuto ammettere che “gli uomini sono uguali dappertutto” ma l’approccio societario può cambiare la percezione del peso, la gestione dell’appagamento, la risposta all’inevitabile calo di dopamina che segue un trionfo.Resta un punto, scomodo per chi tifa come me: Napoli non è ancora abituata alla vittoria continua. Ci sa arrivare, a volte con lampi meravigliosi, ma fatica ad abitarla, a renderla una grammatica dell’ambiente, una prassi che non ha bisogno di fuochi d’artificio per ripetersi. Non è una colpa né un destino: è la fotografia di un ecosistema caldo, identitario, emotivo, che quando mette il tricolore sul petto deve imparare a convivere con il cambio di statuto. Lo si è colto anche tra le righe della comunicazione degli ultimi mesi di Conte: dal giorno zero dopo lo scudetto, l’allenatore ha evitato inni trionfalistici e ha insistito su concetti di struttura, basi, durata, quasi a indicare che il titolo non era un arrivo ma un cantiere aperto.Se guardiamo i mesi del dopo-festa, il racconto pubblico ha oscillato, le pretese sono salite, gli scossoni non sono mancati: ciò che altrove viene interiorizzato come normalità, qui è spesso rinegoziato partita per partita, con il volume alto dei pro e dei contro. Anche per questo l’elogio alla (vecchia) Juve costa—ma serve a mettere a fuoco la natura della pressione che segue la vittoria: non è la stessa di prima, non si doma con gli stessi strumenti, non perdona le stesse ingenuità. E forse spiega perché, a voce alta e con la sua grammatica asciutta, Antonio Conte, dopo il tricolore, ha ripetuto che “dobbiamo crescere tutti, TUTTI, perché questo è un anno complesso”: in quel “tutti” c’è la sintesi di una cultura aziendale e ambientale da rifinire, perché anche Napoli e il Napoli, finora, non sono stati abituati alla vittoria continua.L'articolo Mi tocca elogiare la Juventus: abitare la vetta è cultura proviene da Il Fatto Quotidiano.