“Affari e politica, le mani della ‘Ndrangheta in Emilia”: definitiva la condanna del boss Francesco Grande Aracri

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Con la sentenza n. 945 depositata in questi giorni, la Corte di Cassazione mette la parola fine al processo Grimilde e all’egemonia mafiosa della cosca Grande Aracri trapiantata nel paese di Brescello sulle rive del Po. La Corte Suprema presieduta da Rosa Pezzullo ha dichiarato inammissibile il ricorso dei legali di Francesco Grande Aracri, condannato in primo grado a 19 anni e 6 mesi, con pena inasprita a 24 anni dalla Corte d’Appello di Bologna nel 2024. È il più anziano tra i tanti fratelli e sorelle, residente nel comune di Peppone e don Camillo già dal lontano 1988. Ma Francesco non era semplicemente un membro della cosca: “Era il vertice massimo”, sostenne la pm Beatrice Ronchi della Dda di Bologna durante il processo. Guidava la cosca al nord: era l’altra faccia autorevole della famiglia, mentre il boss Nicolino giù a Cutro controllava, prima di finire all’ergastolo, le attività di una delle più potenti organizzazioni di ‘ndrangheta infiltrate nei mercati economici, capace di tessere relazioni per la gestione di affari criminali in mezza Europa.Nel censurare i motivi del ricorso presentato dagli avvocati difensori, la Corte ha richiamato nella sentenza la differenza esistente tra la semplice associazione a delinquere e quella di stampo mafioso, con la seconda che ribalta il rapporto tra “i mezzi e i fini” delle azioni illecite. Per i comuni criminali la realizzazione dei delitti è lo scopo della associazione; per i mafiosi invece l’attività delinquenziale è solo un insieme di azioni che consentono di perseguire “un obiettivo diverso e più ampio” che si configura nel “controllo stabile di un segmento della vita sociale” attraverso il quale garantirsi poi “l’arricchimento parassitario”. All’associazione mafiosa si aderisce quindi non necessariamente per commettere azioni illecite ma anche solo “per partecipare alla suddivisione dei profitti o per realizzare una duratura supremazia territoriale su ogni genere di attività”. L’organizzazione mafiosa raggiunge i propri obiettivi, che astrattamente possono essere anche leciti, come ottenere appalti o condizionare i mercati di un territorio, “avvalendosi della forza d’intimidazione del vincolo associativo” e dei conseguenti “assoggettamento e omertà” che ne derivano.Ebbene, dice la Corte di Cassazione, nella sentenza d’Appello veniva documentata, grazie ad “un imponente quadro probatorio”, l’esistenza del sodalizio mafioso in Emilia, già accertata nei processi Edilpiovra e Aemilia, con il ruolo apicale di Francesco Grande Aracri a partire dal 2001. Attraverso le società affidate a prestanome o a famigliari, ma a lui riconducibili, Francesco aveva incuneato la propria famiglia nel “tessuto socio-politico-economico del territorio emiliano e in particolare nel Comune di Brescello” tanto da determinare lo scioglimento del Consiglio Comunale nel 2015 per infiltrazioni mafiose. Aveva ottimi rapporti con il sindaco Marcello Coffrini e con il padre Ermes (a sua volta sindaco in anni precedenti), che era stato anche suo legale in contenziosi riguardanti immobili. Gestiva società, come la Eurogrande Costruzioni srl, che ricevevano appalti e lavori dalla amministrazione comunale. Aveva ottenuto una variante edilizia “ad hoc” per la realizzazione del quartiere soprannominato Cutrello. Si era infilato nei ricchi appalti per la costruzione di immobili a Reggiolo e Sorbolo, scambiando corrispettivi gonfiati con i subappaltatori per ripulire denaro. Aveva sfruttato società cartiere e falsa fatturazione secondo il tipico modus operandi della ‘ndrangheta emiliana. Era stato uno dei protagonisti dell’acquisto della grande discoteca Italghisa alle porte di Reggio Emilia, “divenuta simbolo del potere mafioso dei Grande Aracri nel territorio”; luogo dove la sera ballavano centinaia di giovani della città e di giorno “spesso i sodali si riunivano” per trattare i loro loschi affari. Aveva educato in senso mafioso i figli Salvatore e Rosita, condannata di recente a 7 anni e 2 mesi per appartenenza al sodalizio.A fronte di tutti questi elementi, e di tanti altri elencati dalla Corte di Cassazione, la difesa di Francesco Grande Aracri si è limitata, nel suo ricorso, a “reiterare censure già analiticamente vagliate dalla Corte di Bologna, offrendo argomenti manifestamente infondati o genericamente formulati”. Il fratello anziano di Nicolino, diceva già la sentenza d’Appello, è dunque “uno ndranghetista moderno, teso a operare con modalità più morbide, sofisticate e insidiose… come la falsa fatturazione. Cauto e prudente nelle frequentazioni, attento a non sovraesporsi”. Assieme alla faccia buona sapeva però mostrare (o non riusciva a trattenere) anche quella cattiva, come documentato nel docufilm “Aemilia 220”, trasmesso da Rai 2 lo scorso 23 maggio. Mentre viene ripreso al di là della cancellata della sua azienda a Brescello, Francesco Grande Aracri impugna un’ascia di cantiere e minaccia il tecnico dell’emittente locale Telereggio che invece impugna solamente la telecamera. Lo scambio di battute in quei pochi secondi è essenziale ed eloquente: “Chi sei tu?! Dimmi chi sei!”. “Telereggio”. “E va ‘ffan culo Telereggio!! Vai via!!!”L'articolo “Affari e politica, le mani della ‘Ndrangheta in Emilia”: definitiva la condanna del boss Francesco Grande Aracri proviene da Il Fatto Quotidiano.