Dateci degli esterofili, ma come sanno fare cinema in Francia, quel cinema leggero, popolare, sofisticato ma senza spocchia, non ce n’è per nessuno. Esce nelle sale italiane I colori del tempo di Cedric Klapisch, un’operetta mondo sulla favola e le radici del tempo, dolce, ariosa, accogliente, in perfetto equilibrio tra affascinante cura formale e il dischiudersi di una sincerità sentimentale che abbraccia ogni protagonista.Nella Francia di oggi una ventina di estranei tra loro vengono convocati a Parigi per decidere il futuro di una fattoria abbandonata in piena selvaggia Normandia. Tutti discendono senza saperlo dalla contadina Adele Meunier (Suzanne Lindon, deliziosa nella sua antieroica e sobria epopea), mentre al posto della fattoria dovrà sorgere un eco-parcheggio di un polo immobiliare con ipermercato. “Un altro progetto europeo di merda”, esclama Guy l’apicoltore alternativo (ha un vecchio telefonino “poco smart”) interpretato dall’antidivo Vincent Macaigne; uno dei quattro delegati dal gruppo – tra loro: una donna d’affari (Julia Piaton), il giovane filmmaker Seb (Abraham Wapler) e l’insegnante sull’orlo del pensionamento (Zinedine Soualem) – scelti per valutare ciò che è rimasto nell’immobile e capirne le sorti future.Proprio quando i quattro entrano dentro l’antica diroccata magione, con l’appisolarsi di Seb su una vecchia sedia si collegano e catapultano lo spettatore alla fine dell’Ottocento, in piena Belle Epoque, quando la 21enne Adele parte dalla campagna per conoscere la madre trasferitasi a Parigi vent’anni prima. L’espediente omogeneo e fortunato del salto narrativo e della doppia linea temporale caratterizza andamento nostalgico e temperatura calda del film mostrandoci alternativamente una Parigi di oggi travolta da iPhone, selfie, e vuoto percettivo pneumatico del reale (la divetta dei videoclip al museo chiede di cambiare il colore delle ninfe di Monet che ha sullo sfondo per far risaltare i suoi abiti, sic) e la Parigi di fine secolo che si trasforma (l’elettricità sugli Champs-Èlysées, la prima proiezione del cinematografo o anche solo la spiritosa rissa concettuale fra giovani pittori e fotografi del tempo) sotto gli occhi della tenace e mai troppo sbalordita Adele mentre ritrova la madre prostituta e un invecchiato papà celebre a livello mondiale.Klapisch e lo sceneggiatore Santiago Amigorena liberano lo script da qualsivoglia figura antagonista, lasciando fluire la sorpresa graduale di inattesi twist, sia nel passato che nel presente, che esaltano le azioni buone, i gesti generosi, le scelte dolorose ma sincere di ogni singola figura del magico quadro. E a proposito di polposa granulosità cromatica, Klapisch in un dialogo proficuo con la set designer Marie Cheminal, il direttore della fotografia Alexis Kavyrchine e una robusta sezione VFX, ricostruisce visivamente non solo la funzione evocativa di un angolo parigino d’epoca, ma ridà vita e senso sfiorando l’astrazione (nel giardino di Monet sul finale letteralmente ci si perde) alla rappresentazione dello stereotipo estetico delle radici impressioniste francesi. Divertente la seduta spiritica con l’ayahuasca. La cantante di cui Seb s’innamora, artefice dell’esibizione acustica con chitarra di un brano romantico che lascia il segno per tutto il film, è l’amata e popolare folk singer francese Pomme.L'articolo I Colori del tempo, quando la Parigi impressionista incontra quella dei selfie in un film favola proviene da Il Fatto Quotidiano.