Siria. Ritorno ai confini pre-8 dicembre per la pace con Israele

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di Giuseppe Gagliano – Le dichiarazioni di Ahmed al-Sharaa rappresentano un passaggio decisivo nella diplomazia mediorientale. Per la prima volta dal suo arrivo al potere, il presidente siriano afferma apertamente che qualsiasi accordo di pace definitivo con Israele dovrà includere il ritiro delle forze israeliane alle posizioni precedenti all’8 dicembre 2024, la data che ha segnato la caduta di Bashar al-Assad. Non è soltanto un punto negoziale: è una strategia politica che punta a consolidare la legittimità del nuovo governo, rimettere la Siria al centro del gioco diplomatico e definire un quadro di sicurezza che superi l’inerzia del passato.Secondo al-Sharaa, gli Stati Uniti e diversi partner internazionali supportano questa impostazione. Washington, che per anni ha considerato la Siria un attore marginale e ingombrante, adesso si presenta come mediatore diretto. Lo storico incontro del 10 novembre alla Casa Bianca conferma il cambio di rotta: mai un presidente siriano era stato ricevuto ufficialmente negli Stati Uniti dall’indipendenza del Paese. A Washington, Damasco ha chiesto la revoca totale del Caesar Act, il regime di sanzioni imposto contro l’ex governo nel 2019.Damasco sostiene di essere da mesi in colloqui diretti con Israele, una dinamica facilitata dalla diplomazia americana e appoggiata da Turchia e diversi Stati arabi. Parallelamente, la Siria ha rilanciato la questione della sovranità sulle alture del Golan, occupate da Israele nel 1967 e soggette alla legge israeliana dal 1981, una decisione giudicata priva di effetti dal Consiglio di Sicurezza. Nel 2019 gli Stati Uniti hanno riconosciuto il Golan come territorio israeliano, un gesto che ha cristallizzato una delle fratture più profonde tra Damasco e Tel Aviv.Per la Siria, il ritorno ai confini pre-8 dicembre è un passo preliminare e separato rispetto al futuro del Golan. Dallo stesso giorno della caduta di Assad, Israele ha condotto oltre mille raid sul territorio siriano e ha consolidato le sue posizioni sul Monte Hermon, la vetta strategica che domina il confine. Al-Sharaa afferma di non aver risposto per non compromettere gli sforzi di ricostruzione, e nega che Israele stia colpendo milizie filo-iraniane, sostenendo che Damasco abbia allontanato tali gruppi dal Paese. A suo avviso, le incursioni israeliane rispondono a logiche espansionistiche più che a necessità di sicurezza.Israele, per ora, non mostra segnali di voler ritirare le proprie truppe dai territori presi dopo l’8 dicembre. Tuttavia diversi analisti ritengono che un’intesa di sicurezza sia possibile, purché Tel Aviv ottenga garanzie sufficienti. Il nodo più complesso riguarda la richiesta israeliana di smilitarizzare l’intero Sud della Siria, una condizione che al-Sharaa rifiuta con decisione. Una zona totalmente smilitarizzata, spiega, esporrebbe il territorio a infiltrazioni e caos, lasciando Damasco responsabile della sicurezza senza gli strumenti per garantirla. L’estate scorsa, durante gli scontri tra drusi e beduini, Israele aveva già impedito al governo siriano di dispiegare le sue forze di sicurezza nell’area, confermando la volontà di mantenere un controllo indiretto sulla regione.Il quadro che emerge è quello di una Siria che, pur indebolita, tenta di trasformare il cambio di regime in un’occasione diplomatica. Israele mira a preservare profondità strategica e margini di manovra sul confine settentrionale. Gli Stati Uniti, infine, intervengono nella speranza di recuperare un ruolo nel Levante dopo anni di politiche frammentate.Al-Sharaa, lasciando Washington, si è detto convinto che gli Stati Uniti lavoreranno per accelerare il processo negoziale. La vera incognita resta la disponibilità israeliana a cedere terreno e a ridefinire un equilibrio che potrebbe cambiare, in modo sostanziale, la geografia politica del Sud della Siria.