Nella storia del cinema mondiale “c’è un prima e un dopo Toy Story”. Ad esattamente trent’anni dall’anteprima statunitense (19 novembre 1995) del film diretto da John Lasseter, che in Italia uscì solo nel marzo del 1996, viene pubblicato un volumetto apparentemente accademico ma oggettivamente succoso sulla dettagliata genesi e sviluppo del film, nonché del suo valore radicalmente innovativo a livello estetico, narrativo e produttivo.Si tratta di Pixar: Toy Story (Carocci) scritto da Christian Uva e Martina Vita, docenti all’Università di Roma Tre, come se non fossero vissuti dalle parti di San Francisco e Los Angeles. Un volume in cui si respira l’aria di rivoluzione tecnologica del cinema d’animazione (Toy Story è il primo film realizzato totalmente in computer grafica della storia del cinema), di visioni future industriali e fiuto per gli affari con Steve Jobs (qui produttore esecutivo del film e fondatore, con un investimento di 10 milioni di dollari, dei Pixar Animation Studios nel 1986), di svolta epocale nella cultura e nella tradizione del cinema hollywoodiano in casa Disney (quindi inevitabilmente di almeno mezzo mondo cinematografico, in primis quello occidentale, abituato al musical bidimensionale).Per capire il valore fuori dall’ordinario e di riscrittura del genere di Toy Story, Uva e Vita fanno iniziare il loro viaggio dagli albori della Pixar, quando tutto era solo sogno e lungimiranza, quindi da quella Lucasfilm che ingaggia un promettente Lasseter nel 1983 per esplorare le potenzialità della computer grafica applicata all’animazione; è sempre sua, nel 1985, la realizzazione del primo personaggio fotorealistico e dalla conformazione antropomorfa in Piramide di paura; infine la nascita della Pixar vera e propria come realtà indipendente grazie a Jobs che punta sui creativi Ed Catmull, Alvy Ray Smith e appunto Lasseter.L’uso della CGI in Tron, intanto, entusiasma ulteriormente Lasseter & Co. Creativi più informatici si uniscono, scrivono Uva e Vita, seguendo “una visione ottimistica nei confronti delle nuove tecnologie”. Il “realismo estremo” che caratterizzerà missione ed immagine Pixar viene rodato rullando spot pubblicitari (Listerine), corti che poi diverranno di culto (Luxo Jr., Tin Toy) con l’obiettivo di dare un’anima a oggetti inanimati.È del 1991 l’accordo tra Disney e Pixar per ben tre lungometraggi in computer grafica. Il tira e molla durato oltre tre anni prima che Toy Story veda la luce ve lo lasciamo nella ricostruzione di Uva e Vita. Diciamo che come nelle migliori tradizioni dei capolavori ci si mettono in tanti a infilare bastoni tra le ruote, a partire da chi reputa già la prima versione dello script “poco credibile”. In molti ricorderanno che Pixar, e Jobs, saranno costretti a chinare un po’ il capo, produttivamente parlando, alla Disney durante la lavorazione, ma lo stile innovativo di Lasseter & Co. s’imporrà in tutta la sua “fantasmagorica” innovazione. Un po’ di numeri tanto per capire la rivoluzione del primo film girato in computer grafica con protagonisti una banda di giocattoli: “per 79 minuti di animazione – pari a circa 114.240 fotogrammi – vengono realizzate 1.635 inquadrature (sui movimenti di macchina riconoscibili come quelli di Michael Mann o di Kenneth Branagh vi rimandiamo ovviamente al libro ndr) contenenti circa 400 modelli (76 personaggi e 366 oggetti) creati grazie a RenderMan.La progettazione degli story-board ha richiesto la realizzazione di circa 25 mila disegni e più di 2.000 modellini per l’animazione digitale”. I segreti di un lavoro certosino, millimetrico e oltretutto rivoluzionario passando anche dalla trasformazione produttiva/realizzativa tra nuovi comparti del digitale. Lasseter del resto non vuole lasciare nulla al caso, anzi vuole un realismo verosimigliante da lasciare senza fiato. “In ogni isolato di Toy Story ci sono dai 100 ai 200 alberi, ognuno dei quali aveva un numero di foglie tra le 5.000 e le 12.000, arrivando a un totale di 1.200.000 foglie realizzate in computer grafica per ogni isolato”.Realismo che negli anni impareremo a definire nella perfezione concreta di peli e capelli dei protagonisti dei film Pixar, come nei loro occhioni grandi (“mai grotteschi però”), ma soprattutto, come scrivono Uva e Vita: “A differenza dell’animazione tradizionale in cui l’espressione dei sentimenti si concentra per la maggior parte sulla sola zona del volto, in quella computerizzata gli animatori cercano di esprimere lo stato d’animo del personaggio attraverso tutto il corpo”. Un equilibrio perfetto tra “meraviglia e credibilità” in quanto una delle principali ragioni del successo del primo Toy Story, e a seguire dei cinque titoli di tutta la saga, sta sia nella “dialettica tra passato e futuro” che suscita lo scontro/incontro tra i giocattoli protagonisti, cowboy e Buzz, rifacendosi “alla storia culturale degli Stati Uniti e in particolar modo alla memoria nostalgica dei baby boomers – a cui lo stesso Lasseter appartiene”; come grazie ad un’operazione di “rimediazione all’indietro”, ovvero “il processo attraverso cui un nuovo medium rielabora, interpreta e reinventa un medium precedente” sia l’animazione tradizionale della Disney ma anche “il cinema hollywoodiano classico con la sua estetica e il suo linguaggio”. Tanto che tra la produzione di celebri spot pubblicitari nei primi anni Novanta e il definitivo Toy Story è come se “prima ancora del bene di consumo è in effetti la CGI il prodotto che si vuole vendere”. Piccola postilla, da veri storici del cinema come Uva e Vita: il primo esempio “paradigmatico di giocattoli animati” è italiano. Si tratta de La guerra e il sogno di Momi (1917) dove eserciti di soldatini si scontrano muovendosi in “stop motion”. Peccato per le finalità belliciste. Eravamo ancora una volta arrivati per primi.L'articolo Toy Story, la rivoluzione che cambiò per sempre il cinema d’animazione proviene da Il Fatto Quotidiano.