Georges Salines parla come un papà. Quando si presenta, mentre dosa ogni pensiero che riguarda la morte di sua figlia Lola e si concentra sulle conseguenze. Ogni volta che si sforza di capire l’atroce assurdità che è avvenuta il 13 novembre 2015. Ordina un caffè, si apre appena il cappotto nero e con la voce calma ripercorre per l’ennesima volta il vortice che lo ha portato lì. Sono passati dieci anni da quando ha incrociato per l’ultima volta la sua Lola in piscina e l’ha salutata. Fa un sorriso : «Eravamo amici noi due. Come padre e figlia certo, ma molto legati». Erano le 12, lei non ha detto che la sera sarebbe andata al Bataclan, lui l’ha scoperto di notte quando il fratello ha chiamato a casa. Da lì l’impensabile : quasi 24 ore per avere la conferma della morte, per sapere che «un gruppo di giovani della sua età, belgi e francesi, hanno ritenuto opportuno andare a sparare su ragazzi coetanei, a caso, perdendo la vita nel mentre». Lì un bivio, anche se Salines sembra non aver mai avuto dubbi su cosa scegliere : «E’ così assurdo, che odiare non aveva senso». E poi c’era già troppa tristezza. Lui, medico, di fronte a persone con un problema così grande, dice che ha la «tendenza a volerli curare». E soprattutto, «capire». Così, subito dopo, si mette a leggere e studiare tutto il possibile sullo Stato islamico e la radicalizzazione. Va a parlare nelle scuole e incontra le mamme di altri jihadisti. E lì, non solo si accorge del loro dolore, ma lo confronta con il suo: «Loro avevano già perso i loro figli perché si erano allontanati». Salines fa un’altra scelta: accetta l’incontro con il papà di uno degli attentatori del Bataclan, Samy Amimour e accetta di scrivere un libro insieme. Poi, va nelle carceri e incontra due terroristi del commando del 13 novembre: «Lì ho visto a che punto sono uomini comuni. Io non ho saputo niente di nuovo, ma spero che a loro sia servito». Guardare oltre è l’appiglio. Il ricordo di Lola è «chiuso in una capsula» : «Ci viviamo a fianco, ma ogni tanto si apre». Georges Salines descrive quella ragazza che aveva solo 28 anni come se fosse ancora nella stanza, come se la nuotata in piscina fosse di poche ore prima : «Ci sono tante etichette che posso usare. Ma semplicemente era mia figlia e la amavo molto».Avete corso anche voi alla marcia organizzata dall’Associazione delle vittime?E’ stata un’idea della mia amica Catherine Bertrand. L’ho trovata molto bella. Per me la corsa ha un significato speciale.Perché?Già prima degli attentati a Parigi io partecipavo a un club ed eravamo stati molto colpiti dall’attacco alla maratona di Boston. Insieme a loro mi alleno ogni domenica mattina. Il 13 novembre 2015 era un venerdì. La giornata per me è trascorsa normalmente. Sono andato a dormire senza aver acceso la tv, senza sapere quello che succedeva a Parigi. Io e mia moglie siamo stati svegliati a mezzanotte e mezza da una chiamata di nostro figlio maggiore, che ci ha spiegato cosa era successo e ci ha detto che Lola era andata al Bataclan. Quel giorno ci eravamo visti, ma lei non mi aveva detto che ci sarebbe andata. Poi sono passate circa 18 ore prima di avere la conferma della morte: l’abbiamo cercata dappertutto, finché alle 18 di sabato abbiamo saputo che era vero. La mattina dopo ho deciso di andare al mio allenamento come sempre. Sono arrivato al club, lì c’erano tutti i miei amici che sapevano bene cosa fosse successo. Erano sorpresi, commossi. Abbiamo corso: io al centro e tutti i compagni intorno a me.E’ stato il vostro modo di affrontare l’impensabile?Quel giorno non ne ero consapevole, ma penso che sia stata un’idea molto buona.Ricordare fa riaffiorare il dolore?E’ importante per noi, per chi porta un lutto, chi ha perso un figlio, una figlia, un fratello, un padre. Fa bene sapere che ci si ricorda di qualcuno che è morto. C’è questa idea un po’ mistica che non si è mai morti finché qualcuno pensa a noi. Non so se è vero. E poi a noi sembra importante perché è la garanzia che si continua a preoccuparsene. Che si continua a fare degli sforzi per aiutare le vittime. E perché non succeda più, lavorando sulla prevenzione del terrorismo.Ce n’è ancora bisogno?Si può facilmente pensare che lo Stato Islamico è stato distrutto. E ora si è passati ad altro. In parte è vero. Ma non del tutto. Pochi giorni fa tre giovani donne sono state arrestate con l’accusa di voler preparare un attentato. Volevano mettere delle bombe in un bar o una sala da concerto. C’è ancora la minaccia di attentati ispirati, fatti da persone che guardano internet e sono influenzati dalla propaganda. Penso alle ucissioni di Samuel Paty nel 2020 e Dominique Bernard nel 2023. L’epicentro del jihadismo oggi non è in Medio Oriente, è nel Sahel in Africa. E questo non ha prodotto per ora effetti qui. Ma non vuol dire che non succederà di nuovo.Quando avete deciso di impegnarvi per la prevenzione?Sì, fin dall’inizio, molto presto, mi sono detto: bisogna che questo non si ripeta. La seconda: che cosa posso fare io? Quindi ho provato. E mi sono mobilitato per delle azioni educative. E’ la prima cosa che mi è venuta in mente. Ho detto: non sono poliziotto, né un agente dei servizi segreti. Però posso andare a testimoniare, poss spiegare perché la violenza contro degli innocenti non è difendibile da un punto di vista morale. Non è efficace.Dove siete stato?Prima nelle scuole, poi anche nelle carceri. Poi per fare dell’educazione correttamente, avevo bisogno di capire come fosse possibile che dei giovani dell’età di mia figlia, o anche più giovani, belgi o francesi, potessero aver ritenuto opportuno di andare a uccidere altri giovani che non conoscevano. Praticamente a caso. E sacrificando la propria vita nel mentre.E cosa ha fatto?Ho letto tantissimo. Dieci anni fa, in Francia, c’era la scuola di Gilles Kepel che diceva che erano influenzati dall’Islam radicale. Poi Olivier Roy ha spiegato che ci sono ragioni sociologiche : giovani che vengono da famiglie migranti che vivono nelle banlieue. François Burgat l’ha spiegato come un movimento di lotta anti-colonialista. Per Dounia Bouzar il successo è dovuto al fatto che usano metodi da setta. Fethi Benslama ha scritto « Il surmusulano » sul meccanismo psicologico di persone che avevano buttato la loro vita, che un giorno scoprono come sentirsi meglio degli altri.A chi crede lei?Ho anche incontrato molti jihadisti in prigione. E ho concluso che hanno tutti torto, anzi hanno tutti ragione ma in parte. Ho incontrato chi obbedisce a una di queste logiche, ma in generale è un po’ di tutto in diversa proporzione. Elyamine Settoul parla del « pentagono della radicalizzazione» : dice che tutti questi cinque fenomeni entrano in gioco. Io penso abbia ragione.Cosa ha voluto dire per voi incontrare i jihadisti e le loro famiglie?Le famiglie è stato molto presto. Già a maggio 2016, durante un convegno ho incontrato delle mamme di terroristi. E durante la pausa, sono andata a sedermi vicino a una di loro. E mi sono reso conto che soffrivano enormemente per la perdita del figlio. Erano tutte donne il cui figlio o figlia era partito in Siria. Per alcune erano morti, altre speravano di ritrovarlo. Una speranza poi delusa. E avevano quindi una sorta di lutto molto simile al mio.Davvero?Su questo ci siamo riconosciuti. Però la seconda cosa che ho realizzato è che io ho visto Lola il 13 novembre ed eravamo.. amici. Avevamo una relazione padre-figlia, ma molto stretta. Avevamo un punto di vista sulla vita, la politica, molto simile. Potevamo discutere di tutto senza problemi. Mentre per le madri dei jihadisti, c’era stato un allontanamento ancora prima di partire per la Siria. Lo stesso è successo per la famiglia Amimour, ad esempio.Sta parlando della famiglia di uno degli attentatori del Bataclan, uno di quelli che ha ucciso Lola.Sì, Azdyne mi ha spiegato che Samy aveva cominciato a criticare i genitori perché non pregavano, ad esempio. Ho scoperto così che i genitori non erano solidali con l’ideologia dei figli. Alcune donne non erano neanche musulmane. E avevano un senso di colpa enorme. E in più c’era lo sguardo degli altri, dai vicini alla polizia. La famiglia Amimour è stata svegliata dalla polizia che ha distrutto la porta di casa alle 5 del mattino per sequestrare il computer del figlio. E poi li hanno portati in questura per 72 ore.Azdyne Amimour come l’ha contattata?Mi ha scritto a gennaio 2017 per incontrarmi. Ho accettato perché avevo già avuto questa esperienza. E dopo che ci siamo visti mi ha proposto lui di scrivere un libro insieme.E’ stata dura?Mi ha fatto piacere perché ho avuto l’impressione di essere utile a qualcosa. E’ andata bene perché Azdyne è qualcuno di molto seduttore, simpatico. E’ arrivato per chiedermi scusa a nome di suo figlio. E’ successo tutto molto semplicemente.E lo avete perdonato?Gli ho spiegato che per me perdonare suo figlio non aveva alcun senso. Perché non posso pensare che quello che ha fatto possa essere cancellato. Ci sarà sempre. Samy è morto. Io non sono credente. Quindi per me, dal momento che non c’è più, è al di là e non posso aspettarlo né per punirlo né per perdonarlo. Non ha senso. Ad Azdyne e alla sua famiglia ho detto : io non vi devo perdonare, perché non siete responsabili.. cioè non siete colpevoli di niente.Qualche responsabilità c’è?Abbiamo passato ore insieme per scrivere il libro, abbiamo discusso su cosa avrebbero potuto fare di diverso. Io penso che non abbia fatto tutto bene. Ma crescere dei figli è un compito difficile per il quale non siamo per forza tutti ben preparati. Forse nessuno lo è. Ma non è colpevole. Samy ha 28 anni nel 2015, 27 quando va in Siria : è un adulto e responsabile delle proprie scelte.Avete girato insieme?Sì abbiamo una maniera diversa di vedere le cose, ma siamo spesso intervenuti insieme in prigione. Abbiamo messo davanti le nostre esperienze, accettando che fossimo diversi.In generale cosa pensa dei genitori dei jihadisti ?Hanno una grande sofferenza. Poi tutti, anche i più illuminati, sono un po’ nella negazione. O proteggono la memoria dei loro figli dicendo che sono entrati dentro una setta. Ma non è Scientology, è lo Stato Islamico.Quello che avete provato a fare rientra nella cosiddetta giustizia riparativa. E’ stata utile per voi?Sì, molto. Penso che vada migliorata un po’, perché ora in Francia è un po’ dire alle vittime « organizzatevi da soli ». Non ci sono abbastanza fondi per sostenere i programmi. Ma io ho fatto varie cose : ho incontrato un detenuto condannato a 13 anni per aver combattuto con lo Stato islamico. In Belgio invece, ho incontrato due membri della cellula degli attentati di Parigi : Mohamed Abrini et Sofiane Ayari. E poi ho incontrato delle donne rientrate dalla Siria, recentemente Christine Allain che è appena stata giudicata. Durante il processo ha detto : « Ho cambiato idea perché ho letto il libro di Salines e Amimour. E perché ho incontrato Salines ». Non dobbiamo crederle per forza, ma mi ha fatto piacere sentirlo.Quando avete incontrato gli attentatori del 13 novembre, com’è stato?Li conoscevo perché li avevo visti al processo. Ayari appartiene allo schema un po’ politico, o almeno così si presenta : dice che quando c’è stata la primavera araba in Tunisia era troppo giovane e ha avuto l’impressione di aver perso l’occasione di partecipare alla storia. E quando c’è stata la rivolta contro Bachard al-Assad, ha deciso di partire in Siria a combattere. Me l’ha detto quando sono andato in prigione. In tribunale ha anche detto : « Ora davanti alle vittime, dire mi pento, sarebbe troppo facile ». Meritorio anche perché va contro i suoi interessi.E l’altro era Abrini?Lui che durante il processo sembrava un soggetto provocatore, in prigione l’ho trovato più calmo. Quasi simpatico, oserei dire. Era agosto e nella sala avevamo entrambi una camicia leggera di lino, bianca. Abbiamo iniziato così , dicendo « buffo siamo vestiti uguale ». Questo ha rotto il ghiacio. Mi ha spiegato in termini un po’ più convincenti il suo percorsoe. Lui era a Parigi il 12 novembre, doveva partecipare agli attacchi e se na va la sera. Torna in Belgio in taxi perché non ci sono più treni. Una scelta dell’ultimo minuto. Lui dice che ha ottenuto l’autorizzazione dell’amico Abbaoud (il capo del commando ndr) per partire.E poi cosa ha detto?Che rientrato a Bruxelles ha cercato di riprendere la sua vita come se niente fosse. Aveva una fidanzata e insieme sono andati a vedere un appartamento. Poi però si è reso conto che era ricercato, ed è tornato dai compagni. Loro lo accettano e lo imbarcano per il progetto di attentato all’aeroporto di Bruxelles del 22 marzo. Ma anche lì per la seconda volta rinuncia a farlo. Lascia il carrello con l’esplosivo, lo spinge via e se ne va. Lo vedono le telecamere di sorveglianza e viene individuato come l’uomo con il cappello. Poi lo arresteranno.Cosa ha significato per lei questo incontro?Non ho saputo niente di nuovo alla fine, ma da una parte spero che a loro sia servito. Che pensino : c’è una vittima venuta a incontrarmi. Vederli seduti a un tavolo con me mi ha permesso di realizzare a che punto sono persone comuni che hanno commesso atti orribilmente straordinari.Non è ancora più spaventoso?Sì ma lo sappiamo dai tempi di Hannah Arendt.Non era più facile odiarli?Non lo so perché io non ho mai provato odio. Mai. Perché ? Ci sono persone che detesto eh. Però qui il fatto di andare a farsi esplodere al Bataclan, sapere che non si uscirà vivi.. ha un aspetto talmente assurdo che che è difficile odiarli. Io sono un medico e la mia tendenza naturale con le persone che hanno un problema di questa grandezza è di avere voglia di curarle. Piuttosto che dare loro delle sberle. E poi ricordo le parole di una delle nipoti del prete Jacques Amel, ucciso durante la messa. Ha detto : « Siamo così tristi che non c’è posto per l’odio ». Per me è così.Dopo dieci anni la tristezza è ancora così dominante?Sì. Un sentimento di irrealtà e assurdità di fronte al fatto che mia figlia sia morta per un affare geopolitico in Medioriente. Che cosa c’entrava ? Abbiamo fatto un lavoro di lutto per cui possiamo continuare a vivere chiudendo il ricordo in una piccola capsula, che è sempre là. Ma di fianco alla quale continuiamo a vivere. Io vado in vacanza, al cinema, ho dei nipoti. Ma ogni tanto la capsula si apre.Vorrei dare un volto a Lola prima di salutarci, come ce la può raccontare ?Allora era un’editrice. Amava molto i libri, soprattutto per bambini. Era appassionata del suo mestiere. Amava la musica. Era andata al Bataclan a vedere un gruppo rock. Suonava anche, l’ukulele. E cantava. Adorava viaggiare. Aveva studiato in Giappone e fatto uno stage in Canada. Faceva uno sport che conoscono in pochi : il roller derby. Era femminista. Molto. Difficile descrivere qualcuno senza usare una serie di etichette. Per me era mia figlia e la amavo molto.Ha un ricordo che tiene stretto?Tanti. Ricordo quando era solo une neonata : è nata il 6 dicembre e quell’inverno siamo andati sugli Alti Pirenei. Ricordo che c’era tanta neve e io e la mia compagna passeggiavamo con questo piccolo bebè nella neve. L’ultimo è il 13 novembre, quando ci siamo salutati in piscina.Cosa bisogna fare perché non capiti mai più?Educare, educare, educare.L'articolo “Ho incontrato i terroristi del commando del 13 novembre in carcere. Ho bisogno di capire. La morte di mia figlia Lola al Bataclan è così assurda che odiare non ha senso” proviene da Il Fatto Quotidiano.