La letteratura portatile che narrò il Novecento

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Nato nel primo anno del secolo scorso e morto quarant’anni fa, Fred Uhlman è l’autore di una letteratura portatile che, nella sua fisionomia sintetica, ha raccontato il Novecento. Apparso nel 1979, “L’amico ritrovato” è stato letto da generazioni di studenti, come “Un’anima non vile”. Della Trilogia, il romanzo meno noto è però il più audace e doloroso: “Niente resurrezioni per favore”. Uhlman racconta il ritorno in patria, vent’anni dopo l’Olocausto, di Simon Elsas, pittore ormai americano. Che ritrova il Waldcafé di quando era giovane, luogo di bisbocce e grandi amicizie durante giorni che sembravano destinati a essere attraversati per sempre dalla primavera di quei sedici anni – una stagione che non sarebbe tornata mai più, il tempo andato di quando tutto era intatto, prima che si frantumassero l’innocenza e la vita stessa. Quella sera Elsas viene intercettato da Fritz Haber, garrulo e molesto ex compagno di liceo, che lo invita a una cena di vecchi compagni, cena che sarà terribile, in cui le vittime e i carnefici siederanno allo stesso tavolo, costretti a interrogare sé stessi, il proprio passato, e tutto ciò che non vorrebbero ricordare. Elsas scoprirà che il Grande Male continuerà a ferire irreparabilmente e che ognuno di loro – “i sopravvissuti” – ha un’idea assai poco rigorosa circa le proprie responsabilità davanti al male. Insomma, il tema dei temi. Forse non esiste nulla di cui si dovrebbe parlare se non questo: il male. Noi e il male. Lettura caldeggiatissima anche l’autobiografia di Fred Uhlman, in originale intitolata “The making of an englishman”, che in italiano diventa “Storia di un uomo”, titolo più semplice, che non sottolinea il fatto che un giovane tedesco formatosi nella lingua di Hölderlin (quanto è importante, il tema della lingua, nella giovinezza di Uhlman!) si sia dovuto trasformare in un inglese. Questa metamorfosi è il sottotema di tutta l’autobiografia – il retaggio, l’appartenenza, la separazione. Ed è interessante perché da queste parti, di questi tempi e per molto meno, si fa autofiction straziante. Invece Uhlman scrive un’opera intima e straziante, che rifiuta tutti gli stilemi dello strazio e che parla essenzialmente degli altri, affidandosi a un io cui non vuole e non può cedere – un io che diventa noi. E, per soprammercato, trasforma la Storia in Geografia, cioé nella biografia di una fuga senza fine: Parigi gambe in spalla allertato da un biglietto di un amico iscritto al partito nazista (“Uhlman, Parigi ora è bellissima. E sottolineo, ora”), e poi i ritorni in clandestinità nella Germania nazista per incontrare la famiglia; la sorella che si getta col figlio in braccio sotto un treno per non finire ad Auschwitz e i mille peripli, gli stratagemmi, tutto il lungo e il largo (con panico permanente) per andare da qui a lì. Hitler che avanza, un visto assurdo per le Filippine, la Costa Brava proprio mentre si erigono novanta barricate e comincia la guerra civile spagnola. Infine la fuga a Marsiglia e poi l’Inghilterra, porto sicuro fino a un certo punto, perché Uhlman viene internato – esser liberato ma non liberarsi mai dalla condizione di profugo e di tedesco che la Germania ha condannato a morte. L’Inghilterra come un riparo, amato ma mai sentito per davvero, dopo anni di pane e paura, di dolore e sofferenza. L’uomo cui il nazismo sterminò la famiglia, nell’ultimo capitolo della sua autobiografia, scrive: “Non voglio soffermarmi sulle mie sofferenze. Non ne ho diritto”.