Basta giochi: lo stato faccia un passo in avanti su Ilva. Lettera di Andrea Orlando, ex ministro

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Abbiamo trascorso gli ultimi tre anni a segnalare le incongruenze e le contraddizioni delle promesse del ministro Urso sul rilancio dell’ex Ilva. Dai proclami dei primi mesi (“faremo la più grande acciaieria verde d’Europa”) all’amministrazione straordinaria e all’evocazione di un piano che avrebbe consentito “di tornare agli 8 milioni di tonnellate” di acciaio di produzione all’anno (ancora il ministro Urso in Parlamento nel dicembre 2022). Oggi siamo a poco più di 1 milione e mezzo di tonnellate. Le gare indette sono andate praticamente deserte. E il nuovo piano prevede la cassa integrazione, da qui a gennaio, per 6mila lavoratori, più della metà degli attuali dipendenti. La prospettiva è la chiusura, non la ristrutturazione e men che meno il rilancio.    Si tratta di un piano immaginato male, gestito peggio e rimasto senza protagonisti. Ora il ministro riconvoca i sindacati e promette una “nuova condivisione” del percorso. Ma il tempo è abbondantemente scaduto. Non c’è più neppure il beneficio del dubbio: dopo tre anni di annunci, rinvii, “interlocuzioni riservate” e investitori immaginari, il fallimento di Urso — sulla pelle delle prospettive della siderurgia italiana e dei suoi lavoratori — non è più un problema suo. È un problema di cui deve farsi carico la Presidente del Consiglio.   Perché le otto slide che oggi sono sul tavolo sono irricevibili: spegnimento progressivo degli altiforni, fermata delle batterie coke, proroga del commissariamento per trascinare l’agonia di qualche mese. Nel frattempo, in legge di Bilancio si tagliano 300 milioni di euro destinati a progetti d’investimento sulla decarbonizzazione e per gli impianti di riduzione di ferro (DRI).   Anche la partita degli investitori rivela la finzione: due fondi americani — cioè soggetti non industriali — presentano offerte pari a zero euro e limitate al riconoscimento del valore di magazzino; Baku Steel si è ritirata; e un quarto attore rimane innominabile, probabilmente perché non esiste. È un gigantesco gioco delle tre carte, senza alcuna carta vincente, con l’ex Ilva a un passo dallo spegnersi.   La verità, semplice e per questo scandalosa, è che non esiste alcun investitore disposto oggi a caricarsi sulle spalle l’ex Ilva alle condizioni immaginate dal governo.    Dunque, di necessità virtù: che lo Stato governi l’operazione, dia avvio a una nazionalizzazione, foss’anche transitoria. Non so quale Costituzione abbia letto Urso per affermare che la nazionalizzazione della siderurgia sarebbe vietata. In realtà, quella italiana all’art. 43 consente nazionalizzazioni “a fini di utilità generale” e per comparti che abbiano “carattere di preminente interesse generale”. Se la salvaguardia della siderurgia nazionale e di un polo occupazionale che sostiene decine di migliaia di famiglie non può essere considerata un interesse generale, né giustificare interventi orientati all’utilità generale, è lecito domandarsi che cosa possa davvero esserlo.   Anche perché la storia dell’acciaieria italiana è, da sempre, una storia di intervento pubblico e di collaborazione tra Stato e privati. Il presidente di Federacciai Gozzi sostiene che non serva un “piano per la siderurgia” ma solo condizioni abilitanti. Non è così a nostro avviso. Servono condizioni abilitanti, a partire da un prezzo del gas competitivo e dalle bonifiche necessarie, ma poi serve un progetto pubblico vero. Di riconversione e non di dissoluzione.    Qualsiasi altra mossa sarebbe una recita: il rito di un mercato che non funziona e di una politica che finge di crederci.      Al tavolo del 18 novembre ci si deve sedere con un imprenditore e con un piano industriale. E se un imprenditore privato non c’è, l’imprenditore deve essere appunto lo Stato. Non rappresentato da un singolo ministro, ma dalla Presidente del Consiglio in persona, con una squadra ministeriale riunita a Palazzo Chigi e non al Mimit: dagli Esteri, per i profili legati agli attori stranieri, al Lavoro, dall’Ambiente e la sicurezza energetica all’Economia. Nel febbraio 2023, Urso disse che Taranto sarebbe stato «il paradigma su cui misurare la nuova politica industriale del Paese». Appunto. Certificato il fallimento di questi anni del governo, si volti pagina.   Andrea Orlando, ex ministro del Lavoro e responsabile Politiche industriali del Pd