Arriva per tutti il tempo di scrivere la parola fine sulla propria carriera. E le lacrime di Eliud Kipchoge, al traguardo di Central Park, sono il segno della consapevolezza. Gli mancava solo la maratona di New York per mettere a curriculum le sette Majors (le altre sei sono Tokyo, Boston, Londra, Berlino, Chicago e Sydney) e chiudere in bellezza. Lo scorso 2 novembre ha completato pure i 42 km della Grande Mela, un ultimo ballo prima di lasciare il professionismo. Ma “non smetterò mai di correre. Finché le forze mi sosterranno, continuerò a farlo”. 41 anni compiuti il 5 novembre e un palmarès ricco di titoli, l’atleta keniano è tra i più grandi specialisti di sempre nella disciplina. All’inizio gareggiava con ottimi risultati sui 3000 e i 5000 metri, poi ha scelto le lunghe distanze e ha cominciato a dominare. In dodici anni ha vinto 16 volte su 23 gare ufficiali disputate, ha detenuto primati mondiali, conquistato 11 Majors (cinque primi posti alla maratona di Berlino, quattro a Londra, uno a Chicago e Tokyo) e diverse medaglie a livello internazionale. Ha firmato, inoltre, due ori olimpici consecutivi a Rio 2016 e Tokyo 2021, come non accadeva da più di 40 anni. Prima di lui ci erano riusciti solo l’etiope Abebe Bikila (1960-1964) e il tedesco Waldemar Cierpinski (1976-1980). Dopo aver partecipato alla gara di New York di quest’anno, è entrato nella Hall of Fame dei “Six Stars Finisher”, gli atleti che hanno completato tutte e sei le maratone più prestigiose (da quest’anno è stata aggiunta Sydney e sono diventate sette).“Superare i limiti umani”: il record della maratona non omologatoUn campione che a Kaptagat, il suo villaggio a 2400 metri sul livello del mare in Kenya, chiamano “boss”, ma “io li scoraggio sempre. Quando diventi un capo, non pensi lucidamente. È meglio essere un leader che un capo, è così che mostro la strada ai giovani, sono fiducioso di guidarli nel modo giusto”. Umiltà prima di tutto. L’atteggiamento con cui Kipchoge è diventato una leggenda nel suo Paese e l’uomo delle sfide impossibili. L’unico ad abbattere il muro delle due ore sui 42 km. Ci aveva provato la prima volta nel 2017 sul circuito di Monza, fermando il cronometro a 2 ore e 25 secondi, a un passo dall’impresa. Quella barriera ‘disumana’ l’ha buttata giù due anni più tardi sulle strade di Vienna, dove ha tagliato il traguardo in un’ora, 59 minuti e 40 secondi. Per rendere l’idea: un minuto e otto secondi ogni 400 metri. Ripetuto per 100 volte. Un ritmo forsennato che è riuscito a mantenere anche grazie all’aiuto di 41 atleti, al tempo tra i migliori dell’atletica globale, che si sono dati il cambio a dettare il passo per aiutarlo. Tra gli altri Bernard Lagat, bronzo olimpico sui 1500 metri e oro mondiale sui 1500 e 5000 metri; Julian Wanders, primatista della mezza maratona e i fratelli norvegesi Ingebrigtsen, dominatori del mezzofondo europeo. “Volevo ispirare tante persone a spingersi oltre i limiti umani”, aveva dichiarato Kipchoge subito dopo aver stabilito il primato. Il record, però, non è stato omologato, dato che il regolamento di World Athletics (la Federazione Internazionale dell’atletica leggera) non prevede l’utilizzo delle cosiddette lepri intercambiabili, i campioni che lo hanno “agevolato” nel raggiungere il primato.Alle origini di un campioneCome tutti i grandi sportivi, per raggiungere i livelli d’élite che ha poi mantenuto per tutta la carriera, Kipchoge si è sempre allenato duramente. Ma fin da piccolo, ha corso per necessità. In Kenya, copriva lunghe distanze per andare a scuola e tornare a casa. E lo faceva senza pensarci. “Non ti accorgevi di star correndo perché è una cosa obbligata”, ha raccontato in un’intervista rilasciata alla BBC qualche tempo fa. Già da adolescente, il suo talento era cristallino. A 18 anni, il suo allenatore Patrick Sang gli suggerì una scheda di preparazione per farlo fruttare, ma non aveva modo per appuntarla. “Ho preso un bastoncino e ho scritto sul braccio il piano per 10 giorni. Poi l’ho memorizzato e quando sono tornato a casa e ho trovato carta e penna l’ho potuto annotare”. Con il tempo e i trionfi, la vita dell’atleta keniano è cambiata anche a livello economico, ma quando torna al villaggio dove è cresciuto non vuole trattamenti da star. “Non lavoro per i soldi, quelli sono in banca. Desidero una vita semplice”, ha rivelato sempre alla testata britannica. A Kaptagat, tanti ragazzi vorrebbero emularlo: fino a qualche anno fa quasi nessuno reggeva il suo ritmo nella corsa mattutina. Ora, c’è da scommettere che poco sia cambiato. Tutti, in Kenya, lo vedono come un modello e lui crede fortemente che “la cosa più importante non sia la fama, ma l’ispirazione”.“Voglio spingere le persone a lavorare sodo”Da circa due anni, come è umano che sia, la carriera del corridore classe 1984 è in parabola discendente. Nel 2024 sono arrivati il decimo posto a Tokyo e il ritiro ai Giochi di Parigi, nel 2025 sesta piazza a Londra e nona a Sydney. Risultati ottimi, ma non quelli a cui ha abituato il mondo dell’atletica. Anche per lui, il tempo si è fatto sentire. Adesso, archiviata la carriera agonistica, ha in programma di fare 50 km in Arabia Saudita e poi toccare anche l’Antartide. “Voglio spingere le persone a lavorare sodo”, ha spiegato di recente in un’intervista a Olympics. Eliud Kipchoge, quindi, non smetterà di correre. Un po’ per amore verso lo sport. Un po’, perché sente di avere una missione.L'articolo “Voglio fare 50 km in Arabia Saudita e correre in Antartide, così invoglio a lavorare sodo”: il mito Eliud Kipchoge non si ferma mai proviene da Il Fatto Quotidiano.