RD Congo. Quanto sangue serve ancora per meritare la pace?

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di Sergio Restelli * –Nei giorni scorsi c’è stata una strage in chiesa nell’est del Paese. Almeno 43 morti in un attacco dell’ADF, avvenuto durante una veglia religiosa in una chiesa cattolica nella città di Komanda, colpendo indiscriminatamente uomini, donne e bambini.Secondo fonti dell’esercito e della società civile, i responsabili dell’assalto sono miliziani delle Forze Democratiche Alleate (ADF), un gruppo ribelle affiliato allo Stato Islamico, attivo da anni nell’est del Congo e oltre il confine ugandese.Le vittime sono 38 all’interno della chiesa e 5 nel vicino villaggio di Machongani, attaccato poche ore prima: qui sono state incendiate diverse abitazioni e uccisi altri civili.Le ADF operano in una regione provata da anni di instabilità brutale, dove la violenza è alimentata da rivalità etniche, traffici illegali e una presenza statale intermittente.L’esercito congolese, impegnato sul fronte sud contro il gruppo ribelle M23, fatica a contenere la minaccia jihadista nell’Ituri.“L’ADF approfitta del fatto che l’attenzione militare e diplomatica sia focalizzata altrove, riuscendo ad agire nell’ombra”, ha dichiarato Christophe Sematumba, analista della rete regionale di sicurezza.Gli assalitori sarebbero partiti da un bastione ribelle situato a circa 12 km da Komanda e si sarebbero ritirati prima dell’arrivo delle forze di sicurezza.Il governo congolese ha condannato l’attacco definendolo un “atto orribile”, mentre l’esercito lo ha descritto come un “massacro su larga scala”, con ogni probabilità in risposta a recenti operazioni militari contro l’ADF.La missione ONU di peacekeeping, MONUSCO, ha espresso “profondo sgomento”, avvertendo che queste violenze “peggiorano una situazione umanitaria già drammatica”.Nel frattempo il gruppo M23 ha colto l’occasione per accusare il governo centrale di fallire nella protezione dei civili, mentre migliaia di persone continuano a fuggire da villaggi e città, in cerca di un rifugio sempre più raro.L’attacco di Komanda non è solo l’ennesimo capitolo della violenza che dilania l’est della Repubblica Democratica del Congo: è il simbolo tragico dell’impotenza della comunità internazionale, del fallimento dello Stato congolese e del disperato rifugio nella fede di una popolazione abbandonata.Dopo decenni di interventi, missioni ONU, conferenze di pace, e appelli diplomatici, il tessuto della sicurezza in Congo resta fragile come carta bagnata. L’ONU osserva, condanna e conta i morti. Ma sul terreno, l’ADF continua a colpire con ferocia. La comunità internazionale appare prigioniera della sua stessa retorica, paralizzata da interessi geopolitici e logiche di potere che lasciano poco spazio alla difesa della vita umana, specie quando si consuma in silenzio, lontano dai riflettori.In questo deserto di protezione, la religione diventa rifugio. Ma anche quel rifugio è sotto attacco. L’assalto a una chiesa, durante una veglia notturna, non è solo un crimine: è un atto di terrorismo simbolico, una profanazione della speranza stessa.In Congo oggi nemmeno pregare è sicuro. Lo Stato congolese? E’ sempre più un’ombra. L’esercito è male equipaggiato, talvolta accusato di connivenze locali, spesso assente nei momenti cruciali. Le istituzioni arrancano tra corruzione, paura e impotenza, nel mentre milioni di cittadini vivono sotto assedio, come se fossero abitanti di una terra senza Stato. L’eccidio di Komanda dovrebbe scuoterci, indignarci, mobilitarci.Ma la verità è che, se nulla cambia, sarà archiviato come “l’ennesima tragedia africana”, e dimenticato nel vortice dell’indifferenza globale. E questo, forse, è il crimine più grande di tutti.Interroghiamo la comunità internazionale: dov’è il coraggio del sostegno? La domanda oggi è inevitabile: quanto sangue deve ancora essere versato prima che le autorità internazionali ONU, Unione Africana, Unione Europea, e gli attori della diplomazia globale decidano di intervenire con decisione? Le formule di rito non bastano più. Le missioni ridotte all’osso, gli aiuti d’emergenza a singhiozzo, i comunicati di condanna: tutto questo è ormai inadeguato e tardivo. È tempo di riconoscere un fallimento collettivo e voltare pagina.Non con operazioni simboliche, ma con una strategia reale e duratura: rafforzare lo Stato di diritto; disarmare i gruppi armati; sostenere le comunità locali; e restituire dignità a un popolo che da troppo tempo paga il prezzo della nostra disattenzione. La tragedia del Congo non è inevitabile. È il risultato di scelte. E di omissioni.* Articolo in mediapartnership con Nuovo Giornale Nazionale.