di Giuseppe Gagliano – A quasi un mese dai bombardamenti congiunti di Stati Uniti e Israele sul territorio iraniano, il primo faccia a faccia tra Teheran e il gruppo E3 (Francia, Germania e Regno Unito) si è concluso senza svolte, ma con la promessa di nuovi colloqui. Istanbul ha ospitato quattro ore di confronto serrato tra due blocchi che si scrutano con sospetto crescente, mentre la finestra diplomatica si restringe inesorabilmente.Il cuore della disputa è la Risoluzione 2231 delle Nazioni Unite, che nel 2015 aveva sancito l’accordo sul nucleare iraniano. La sua scadenza, fissata al 18 ottobre, potrebbe determinare la fine di ogni vincolo multilaterale, a meno che non venga attivato il meccanismo di “snapback”, ossia il ripristino automatico delle sanzioni ONU. Un ritorno al passato che colpirebbe duramente il sistema bancario iraniano, il comparto energetico e il settore difesa, già provati da anni di isolamento e da una recente escalation militare.L’offensiva israeliano-statunitense di giugno ha avuto un impatto significativo ma non risolutivo: secondo fonti americane, solo uno dei tre siti nucleari colpiti sarebbe stato distrutto in modo irreversibile. Gli altri due sarebbero ancora operativi, seppure danneggiati. Da parte sua, l’Iran ha ribadito che il proprio programma nucleare ha finalità esclusivamente civili, ma ha confermato l’intenzione di proseguire l’arricchimento dell’uranio, anche dopo gli attacchi. Il messaggio è chiaro: nessuna pressione militare costringerà Teheran ad arretrare.Di fronte a un’America che ha già tracciato la linea rossa militare, l’Europa si ritrova a mediare senza reali leve coercitive. Da qui la proposta dell’E3: prorogare la risoluzione ONU di sei mesi, in cambio di “misure concrete” da parte dell’Iran. Tra queste, piena cooperazione con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, chiarimenti sulla destinazione di 400 kg di uranio altamente arricchito (di cui si sono perse le tracce dopo i raid), e l’eventuale ripresa di colloqui diretti con Washington. Ma Teheran, per ora, si limita a definire “insensate” le pressioni sul prolungamento della risoluzione.La posta in gioco non riguarda solo l’Iran. Dal 2018, con l’uscita unilaterale degli Stati Uniti dal JCPOA voluta da Trump, l’ordine multilaterale sulla non proliferazione è entrato in crisi. La Cina e la Russia, formalmente ancora aderenti all’accordo, mantengono posizioni ambigue: da un lato difendono l’intesa, dall’altro usano l’instabilità iraniana come leva per indebolire l’influenza americana nella regione. L’Europa, invece, rischia di rimanere prigioniera della propria impotenza diplomatica, stretta tra l’assertività USA e la diffidenza iraniana.Le ripercussioni sul piano economico sono evidenti. Un ritorno delle sanzioni colpirebbe le esportazioni petrolifere iraniane, già ridotte ai minimi storici, ma provocherebbe anche nuovi rialzi nei mercati energetici europei, che contano ancora sulla diversificazione dopo la rottura con la Russia. Inoltre, la tensione nucleare frena ogni prospettiva di investimenti esteri in Iran, bloccando un mercato potenzialmente strategico per infrastrutture, telecomunicazioni e tecnologie dual-use.Teheran gioca col tempo, consapevole che ogni settimana senza decisioni rafforza il suo posizionamento negoziale e mette in difficoltà i rivali. Gli Stati Uniti insistono sulla linea della deterrenza militare, l’Europa sulla diplomazia tecnica, Israele sulla neutralizzazione preventiva. In mezzo, un’area mediorientale più instabile che mai, dove l’uranio arricchito è solo il simbolo di una sfida ben più ampia: chi controllerà i futuri equilibri regionali e le nuove architetture di sicurezza globale