Ucraina. I russi avanzano nel Donbass e conquistano Chasiv Yar

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di Giuseppe Gagliano –La conquista russa della città ucraina di Chasiv Yar, annunciata da Mosca dopo sedici mesi di battaglia, racconta molto più dello stato del conflitto di quanto si possa credere. È una di quelle “vittorie” che, più che rovesciare le sorti del campo, ne cristallizzano l’impasse. E infatti, sebbene i paracadutisti russi abbiano issato il tricolore tra le macerie della città distrutta, Kiev smentisce, i droni continuano a sorvolare l’area e i combattimenti proseguono nelle zone limitrofe. La guerra, insomma, è ancora lì, dove l’abbiamo lasciata: nel cuore logorato del Donbass.Chasiv Yar è un centro minuscolo, a malapena 12mila abitanti prima della guerra, ma con una posizione geografica rilevante. Sorge su un’altura e serviva da retrovia per l’artiglieria ucraina e da barriera naturale contro l’avanzata russa verso Kostiantynivka, Sloviansk e Kramatorsk – nomi che suonano già noti, per essere stati teatro di battaglie decisive sin dal 2014. La presa della cittadina, se confermata, facilita l’uso da parte russa di droni e fuoco indiretto contro le linee ucraine e taglia alcune vie di rifornimento. Ma questo vantaggio ha un prezzo: migliaia di vittime, mesi di sforzi, avanzamenti al ritmo di pochi metri al giorno. Non è una blitzkrieg, è un logoramento.A Mosca serve una vittoria simbolica, e Chasiv Yar è servita su un piatto d’argilla. I suoi edifici industriali in rovina, un tempo utili alla produzione di cemento armato, sono stati trasformati in fortini urbani dalle forze di Kiev. La battaglia, secondo gli stessi analisti russi, è stata tra le più dure e lunghe della guerra. Ma cosa resta di tutto questo? Un cumulo di rovine, poche centinaia di civili evacuati dai russi e una postazione da cui, forse, far partire nuovi assalti. A condizione, però, che l’Ucraina non riesca a trasformare le rovine in trappole. È la logica della guerra d’attrito: un’avanzata costa, la difesa consuma.La mossa di Mosca ha anche un evidente valore simbolico. In un momento in cui Donald Trump minaccia dazi e ultimatum, proclamare una vittoria militare serve al Cremlino per riaffermare la propria agenda: “la guerra non si ferma finché gli obiettivi non sono raggiunti”, ripete Dmitry Medvedev. E lo fa con toni apocalittici, evocando addirittura il sistema nucleare “Dead Hand”, vestigia da Guerra Fredda ripescate per tenere alta la tensione con Washington. In realtà, il vero messaggio è chiaro: Mosca intende negoziare solo da posizione di forza, o almeno da una percezione di forza.Per l’Ucraina perdere Chasiv Yar potrebbe essere una battuta d’arresto locale, non un punto di rottura. Kiev insiste sul fatto che si tratti di una “vittoria di Pirro” per Mosca, troppo costosa per ciò che offre. Gli analisti militari più cauti, anche in Russia, riconoscono che la città ha perso molto del suo valore strategico nel tempo e che l’avanzata russa – se ci sarà – sarà ancora lenta e incerta. Il Donbass si conferma una linea di frizione, dove si alternano fasi di logoramento e micro-riconquiste, ma senza reali sfondamenti. Il rischio per entrambi è la stagnazione, non il collasso.In questo scenario si inserisce l’intervento della diplomazia statunitense. Il presidente Trump, attraverso il suo emissario all’ONU, ha lanciato un ultimatum: fine della guerra entro l’8 agosto, o nuovi dazi contro Mosca. Una scadenza elettorale più che diplomatica, che serve al tycoon per mostrare i muscoli ma che rischia di irrigidire ulteriormente i due fronti. Mosca reagisce con sarcasmo e minacce, Kiev si trincera dietro la richiesta di un cessate il fuoco “totale e incondizionato”. Ma nessuno, al momento, mostra segni concreti di voler cedere.Sul piano geopolitico Chasiv Yar è il simbolo della guerra del XXI secolo: tecnologica ma brutale, lenta ma devastante, condotta tanto per motivi interni quanto per proiezioni esterne. La Russia gioca la carta della resistenza strategica, sostenuta da un’economia di guerra sempre più integrata con quella cinese e indiana. L’Ucraina, invece, punta sull’appoggio occidentale, che però appare sempre più vincolato alle dinamiche politiche statunitensi. Con Trump pronto a “normalizzare” i rapporti con Mosca se otterrà la pace da vincitore, la posta non è solo territoriale ma globale.