L’iniziativa di un nutrito gruppo di ex diplomatici italiani di indirizzare una lettera alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni per esortare il governo, al pari di quanto si accingerebbero a fare Francia e Gran Bretagna, a procedere con il riconoscimento dello Stato di Palestina, ha sicuramente avuto il merito di rilanciare un dibattito politico che languiva da tempo su una questione assai importante e che conferisce concretezza ai quei valori che sovente invochiamo, ma sui quali poi non facciamo seguire iniziative politiche di ampio respiro.Nel nostro Paese, come nel resto d’Europa d’altro canto, il dibattito sulla questione palestinese si è tragicamente sviluppato nel contesto dell’efferato attacco terroristico del 7 ottobre 2023 ad opera di Hamas, e sulla reazione israeliana, in particolare sulla sua proporzionalità in ottemperanza ai principi del diritto internazionale e del diritto internazionale umanitario. In sintesi, si è oscillato tra il sacrosanto diritto israeliano all’autodifesa e la necessità che l’esercizio di tale diritto fosse coerente e aderente ai principi universalmente riconosciuti e accettati dalla comunità internazionale a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale.Tale apprezzabile proposta avrebbe forse avuto una eco e un impatto ben diverso, superando gli steccati della politica interna se avesse abbinato questa legittima richiesta, a una visione più ampia della questione e delle possibili soluzioni per uscire dall’attuale paralisi. Le più importanti lezioni impartite dal deragliamento dei cosiddetti Accordi di Oslo nell’ultimo ventennio sono state la trattazione separata dei diversi dossier politici e di sicurezza mediorientali, l’adozione di un rigido approccio negoziale sequenziale e incrementale, troppo ancorato alle cosiddette confidence-building measures facilmente esposte ad ogni minima turbolenza, e dall’aver delegato, almeno nell’ultimo decennio, esclusivamente agli Stati Uniti la funzione mediatrice con dei risultati che hanno offerto luci e ombre.Per fare un esempio, nel 2002-2003 il varo della famosa Road Map verso la soluzione dei due Stati fu il risultato di un serrato confronto tra Usa e Ue, nel quale gli altri due membri del cosiddetto Quartetto, Russia e Onu, si limitarono al ruolo di comprimari. Di questo rilevante ruolo dell’Europa si è ormai persa ogni traccia. Già oltre un decennio fa, durante l’ultimo serio tentativo Usa di pervenire alla soluzione dei due Stati, quello compiuto dall’allora Segretario di Stato John Kerry, l’Europa era completamente sparita dai radar della diplomazia.In questo senso sarebbe stato forse opportuno il recupero dell’originale visione lanciata 35 anni fa dall’allora ministro degli affari Esteri Gianni De Michelis per una Conferenza per la pace e la sicurezza nel Mediterraneo (cosiddetta Cscm per assonanza con la Csce, Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa) da integrare con un Allargamento della sua portata geografica a Cscma, ovvero Mediterraneo Allargato. In altri termini saldare il processo di pace israelo-palestinese ai negoziati nucleari con l’Iran e agli altri dossier aperti all’insegna del noto motto “nothing is agreed until everything is agreed“. Il metodo adottato allora di trattare separatamente e incrementalmente i diversi dossier che erano inestricabilmente connessi per evidenti ragioni di sicurezza ha finito per conferire ai diversi estremismi presenti sul terreno, da ambo le parti, un micidiale potere di veto sul successo degli sforzi negoziali.Al Medio Oriente resta ormai poco tempo per fermare la corsa verso l’abisso, occorre quindi un Big Bang che tratti contemporaneamente e sinergicamente, nella cornice negoziale giusta e con i principali attori, tutti i temi. Il conflitto israelo-palestinese non può prescindere dal programma nucleare iraniano e quest’ultimo non può trovare composizione accettabile senza considerare le attività destabilizzanti di Teheran nella regione a partire dal Libano e dallo Yemen. Quest’ultime, a loro volta, troveranno estrema difficoltà nell’individuare un’accettabile composizione se Israele, dal canto suo, pretenda di continuare autonomamente la sua politica di insediamento nei territori palestinesi. Tutto si lega inestricabilmente e come tale va trattato con un approccio comprensivo.In fin dei conti era proprio questa l’intuizione originaria, condivisa negli anni successivi anche dal presidente Berlusconi che aveva anche aggiunto il cosiddetto Piano Marshall per la ricostruzione. Essa andrebbe recuperata e riadattata e il governo italiano potrebbe farsene attivo interprete in Europa e con l’alleato americano, forte dei suoi buoni rapporti con tutte le parti in causa. Non è più possibile ricorrere a misure frammentate, peraltro imperdonabilmente tardive viste le pesanti responsabilità storiche dei due Paesi nella regione che hanno subito dopo la Seconda guerra mondiale tracciato i confini della attuale martoriata regione.Superando anche il legittimo sospetto che esse possano essere state motivate anche da esigenze interne e da speranze di poter consolidare rapporti economici e militari con le principali monarchie dell’area. Il riconoscimento dello Stato di Palestina quindi, ma solo nella visione di propiziare una pace giusta e durevole e non per alimentare altre lacerazioni tra i Paesi occidentali amici di Israele e solo se fosse collegato ad una visione e a proposte di più ampio respiro suscettibili di far uscire la regione dalla pericolosissima palude nella quale sta affondando.