La posta in gioco in Medioriente non è solo militare: l’Iran non può sfidare l’Occidente

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Quando si parla dell’attacco israeliano contro l’Iran, mi rendo conto che spesso la discussione si limita a parlare di equilibri regionali, minacce nucleari o di lotte per il potere. Secondo me, però, questa visione è riduttiva. Penso davvero che ci sia qualcosa di più ampio e profondo dietro tutto questo: un confronto tra visioni contrapposte del mondo e della società. Credo che Trump e Netanyahu abbiano commesso un errore strategico nel pensare di poter fermare Teheran semplicemente colpendo impianti nucleari e distruggendo arsenali missilistici. La verità, a mio avviso, è che dietro a queste azioni militari ci sia una paura più grande: la paura di un modello alternativo di civiltà che l’Iran vuole rappresentare.A proposito di questo, mi viene in mente la campagna di Trump, “It’s time for a new Middle East” (È tempo di un nuovo Medio Oriente). Una campagna che, secondo me, vale solo per quei paesi arabi che sono disposti a cambiare profondamente pur di allearsi con l’Occidente. Questa idea di riforma, però, sembra aver dimenticato alcuni dettagli importanti: oggi vediamo personaggi come Ahmed al-Sharaa, che in passato erano considerati “terroristi”, dichiararsi improvvisamente “amici” dell’Occidente. Persino paesi come la Siria, fino a ieri osteggiati, oggi vengono corteggiati o tollerati solo perché pronti a conformarsi a un nuovo ordine regionale dettato dall’Occidente. Questo mi sembra non solo ipocrita, ma anche pericoloso.Ciò che rende l’Iran una minaccia agli occhi di Israele e degli Stati Uniti non è soltanto la capacità militare, ma soprattutto l’ambizione di Teheran di porsi come punto di riferimento per un modello diverso da quello occidentale. L’Iran si presenta come una forza autonoma, capace di proporre valori di sovranità nazionale, indipendenza tecnologica e spiritualità contro il dominio culturale e politico del liberalismo occidentale.Basta guardare gli effetti delle sanzioni imposte a Teheran: nonostante gli sforzi americani per isolare l’Iran economicamente e politicamente, il paese ha trovato il modo di trasformare questi ostacoli in occasioni di crescita. Questo, secondo me, è il vero pericolo che Israele e gli Usa percepiscono: non missili, ma la possibilità che l’Iran diventi un esempio di resistenza capace di ispirare altre nazioni.Mi chiedo spesso cosa sarebbe successo se l’Iran avesse accettato il ruolo subordinato assegnatogli dalle potenze occidentali. Probabilmente oggi non vedremmo guerre e conflitti, ma rapporti economici e persino sostegno allo sviluppo nucleare da parte di quegli stessi paesi che ora lo combattono. Questo mi porta a pensare che il vero nodo della questione sia il rifiuto iraniano di essere un Islam “compatibile” con gli interessi occidentali.Ciò che realmente preoccupa gli strateghi di Washington e Tel Aviv non è, quindi, il programma nucleare iraniano, ma il fatto che esista una civiltà alternativa capace di sfidare culturalmente e politicamente il modello occidentale. È qui, secondo me, che si nasconde la vera battaglia: uno scontro tra sistemi di valori e non soltanto tra eserciti. Quello che mi chiedo è se in Occidente siamo davvero consapevoli di questo aspetto più profondo. Continuare a vedere questi eventi solo come conflitti regionali rischia di farci perdere di vista la vera posta in gioco, la possibilità stessa che modelli alternativi possano emergere e diffondersi globalmente.Alla fine, la domanda cruciale da porci sia questa: siamo pronti a confrontarci seriamente con idee diverse dalle nostre, anziché limitarci a contrastarle con missili e sanzioni? È arrivato il momento di aprire un vero dialogo, non tra armamenti, ma tra civiltà.L'articolo La posta in gioco in Medioriente non è solo militare: l’Iran non può sfidare l’Occidente proviene da Il Fatto Quotidiano.