Cosa racconta lo scontro Thailandia-Cambogia

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Dopo cinque giorni di scontri armati lungo il confine tra Thailandia e Cambogia, con oltre 300.000 sfollati e decine di vittime, un cessate il fuoco è entrato in vigore il 28 luglio. La tregua regge, ma resta fragile. In gioco non ci sono solo dispute territoriali: la crisi ha rivelato rivalità dinastiche, debolezze istituzionali e nuove dinamiche geopolitiche. Argomenti approfonditi nell’edizione di “Indo-Pacific Salad” di questa settimana, dedicata proprio alla crisi nel Sud-est asiatico (per leggerla serve iscriversi seguendo questo link).Tutto è cominciato con una telefonata privata — poi divulgata — tra la premier thailandese Paetongtarn Shinawatra e l’ex leader cambogiano Hun Sen. Toni deferenti, promesse personali e critiche all’esercito thailandese hanno offerto ai militari di Bangkok un pretesto per delegittimare la premier, già politicamente vulnerabile. Sullo sfondo, la contesa territoriale attorno ai templi del Triangolo di Smeraldo.In Cambogia, l’attivismo bellico di Hun Sen, oggi presidente del Senato, sembra rispondere più a logiche di potere interno che a reali esigenze difensive. Il conflitto ha permesso al clan Hun di consolidare il consenso attorno alla transizione dinastica. Da entrambe le parti, la guerra è stata usata come strumento politico interno.Sul piano regionale, l’Asean ha faticato a rispondere. Solo l’intervento diretto del premier malese Anwar Ibrahim ha riportato le parti al tavolo. Ma, come avverte l’analista Khang Vu, l’organizzazione rischia di essere marginalizzata da un nuovo ciclo di competizione tra grandi potenze.Donald Trump ha scelto la via del negoziato (anche pensando al Nobel per la Pace) ha minacciato dazi del 36% e bloccato i negoziati commerciali con entrambi i Paesi, spingendoli al negoziato. Ma il suo approccio post-ideologico mostra limiti: se le tariffe entreranno in vigore, la leva svanirà. D’altronde, in molti contesti l’identità prevale sull’economia.La Cina ha invece adottato un profilo basso ma presente: dichiarazioni di principio, osservatori al tavolo negoziale, e allineamento su una “neutralità cambogiana”. Come nota il professor Khoo Yong Hoi, Pechino preferisce la diplomazia discreta, ma non per questo meno strategica. Washington alza la voce, Pechino rafforza la posizione, ma potrebbe essere chiamata in futuro a fare di più per la sicurezza della regione.