di Sara Gandini e Paolo BartoliniLa pandemia/sindemia è finita il giorno in cui è iniziata la guerra in Ucraina. E quest’ultima ha perso di interesse quando è iniziata quella a Gaza. Il capitalismo delle emergenze agisce nel mezzo del caos che i suoi stessi agenti provocano e chi governa può prendere misure altrimenti inaccettabili grazie alla propaganda delle emergenze. Come sarebbe, del resto, giustificabile la politica di riarmo europeo dopo una pandemia che ha mostrato la drammatica crisi del sistema sanitario pubblico? E così ora i tagli al welfare non fanno scandalo, nonostante solo pochi mesi fa si accettassero la sorveglianza autoritaria dei coprifuoco, i dispositivi insensati e discriminanti (come il green pass e l’obbligo vaccinale) e l’infinita didattica a distanza mentre si tenevano chiusi in casa bambini e adolescenti. Tutto in nome della “sicurezza” sanitaria mentre si finanziano guerre. Come si fa a non vedere l’assurdità di queste narrazioni?Eppure una continuità c’è. Se ci pensiamo, cosa hanno in comune la pandemia/sindemia iniziata nel 2020, il conflitto in Ucraina tra Nato e Russia, e la brutale strategia di espulsione forzata e soffocamento civile che Israele sta attuando ai danni dei palestinesi? Ogni emergenza viene gestita con la stessa modalità, ridicolizzando le voci dissonanti e svilendo ogni critica dotata di senso.Per quanto riguarda l’invasione russa del febbraio 2022 si è preferito lasciare che gli accordi di Minsk venissero violati impunemente (soprattutto dagli ucraini), rifiutando per anni ogni proposta russa volta a definire un’architettura di sicurezza internazionale che garantisse il rispetto degli interessi di tutti. E per quanto riguarda lo sterminio in atto in Medioriente? Invece di fare pressioni in ogni modo per costringere Israele a liberare i territori illegalmente occupati (come richiesto da vari pronunciamenti dell’Onu), si è bollato come antisemiti tutti coloro che si spendono per un cessate il fuoco.Se non comprendiamo che i tasselli appena ricordati fanno parte tutti di un unico mosaico, rischiamo di cadere nella trappola della propaganda, che vorrebbe nascondere gli aspetti sistemici e strutturali del disastro contemporaneo. Privatizzazioni dei beni pubblici e comuni, riarmo, controllo massiccio dell’informazione, riduzione al silenzio della critica democratica e del conflitto sociale, eliminazione progressiva dei soggetti e dei popoli che ostacolano i disegni geopolitici e commerciali delle grandi potenze, precarizzazione crescente della vita e del lavoro, penetrazione capillare dei fondi assicurativi e del capitale finanziario americano in Europa: questi, e altri, sono i vettori della storia attuale comandata dalle élite dem e repubblicane, dalle “sinistre” neoliberali e dalle nuove destre liberiste.E anche in un ambito più locale, come quello di Milano, rintracciamo le medesime coordinate: privatizzazioni selvagge, speculazioni, squalificazione del conflitto sociale, centralità assoluta del business, opacità dei sistemi che dovrebbero vigilare sull’operato della politica e dei “tecnici”.Lucia Tozzi spiega nel suo imperdibile libro “L’invenzione di Milano” come è avvenuto il passaggio da una città che era fondata sulla produzione di merci, di cultura, di lavoro sociale, a una città “attrattiva”, impegnata in una operazione di marketing permanente, tesa a produrre un’immagine capace di attrarre i flussi finanziari e turistici a breve termine, e ad espellere il ceto medio. Per non parlare delle classi sociali più fragili: negli ultimi decenni si è assistito a un progressivo taglio dei fondi destinati ai servizi pubblici e alla manutenzione di beni comuni come strade, case popolari e parchi. Nelle aree più ricche gli spazi pubblici vengono svenduti mentre nei quartieri popolari si creano condizioni di abbandono che col tempo rendono i territori sempre meno accessibili. La città è disegnata per chi se la può permettere: in più in quarant’anni infatti gli alloggi pubblici si sono dimezzati e l’ente Aler continua a vendere case, lasciando decine di migliaia di famiglie in attesa di una soluzione abitativa.Ma soprattutto Tozzi mette al centro della sua riflessione un secondo aspetto fondamentale che riguarda l’affossamento del conflitto. Le organizzazioni e le realtà locali che raccolgono le proteste e offrono servizi nei territori vengono sempre più inglobate in un sistema di bandi pubblici o finanziamenti europei che garantiscono piccole risorse economiche, ma di fatto imbavagliano la critica. Spesso impongono progetti decisi dall’alto e contribuiscono alla privatizzazione di servizi e spazi, che vengono affidati a privati o al terzo settore sotto la retorica della tutela del bene comune ma di fatto contribuendo allo smantellamento del welfare pubblico. Si tratta di una strategia che svuota di contenuto politico i movimenti sociali, trasformandoli in strumenti di propaganda, per “rivitalizzare” quartieri e spazi pubblici in modo utile ai processi di trasformazione urbana e speculazione.È necessario quindi riflettere per capire come ripartire da un’idea di conflitto e di rivendicazione collettiva che sia in grado di difendere gli spazi pubblici, contrastare la rendita immobiliare e costruire strumenti capaci di proteggere i beni comuni prodotti dalla collettività, promuovendo forme di abitare e di socialità più giuste e accessibili. Bisogna riaprire da un serio dibattito politico fuori e dentro le istituzioni per mettere in discussione una politica che perde di vista le necessità concrete dei cittadini. Si tratta di una urgenza che riguarda le questioni di ogni ordine e grado: dalle nostre città agli equilibri precari del mondo multipolare.Nessuno potrà evitare la catastrofe aspettando che “passi la nottata”. Riempiamola di stelle e di vie luminose, anche quando il buio avanza.L'articolo Il filo che lega sindemia, guerre e capitalismo delle emergenze proviene da Il Fatto Quotidiano.